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Scritto da nel Internazionale, Numero 53 - 16 Gennaio 2009 | 0 commenti

Good morning, Gaza

Se il buongiorno si vede dal mattino, questo 2009 non dovrebbe essere affatto un buon anno per il conflitto israelo-palestinese. In un mondo (occidentale) distratto da festività, regali e vacanze, nello “sporco, brutto e cattivo” Medio Oriente si continua a combattere e a morire. Tra ignoranza, superficialità e atteggiamenti di fastidio (“ancora questi israeliani e questi palestinesi?! Ma perché non la smettono di farsi la guerra?!” è uno dei commenti che mi è capitato di ascoltare in giro) la striscia di Gaza si sta riempiendo di macerie giorno dopo giorno.
La scorsa settimana è stata segnata da un “approfondimento” dell’iniziativa militare israeliana, con l’inizio di un attacco di terra di cui oggi è ancora difficile prevedere con esattezza la futura portata, intensità e durata (di certo bisogna fare i “complimenti” ad Israele: un rapporto, da brividi, di uno a cento tra le vittime israeliane e quelle palestinesi è cosa da far invidia anche ai “migliori” – peggiori?!- ufficiali del secolo scorso).
A livello internazionale, la nuova strategia israeliana ha suscitato reazioni praticamente in tutta la comunità internazionale. Gli “schieramenti”, per così dire, stanno emergendo con sempre maggiore chiarezza e nell’allineamento caratteristico di alleanze si riscoprono, oltre a vecchie certezze, anche nuove realtà.
Come anticipato nell’analisi della settimana passata, il dubbio sul timing dell’operazione israeliana a Gaza (cioè che quest’ultima fosse stata lanciata proprio adesso in modo da sfruttare gli ultimi giorni di sicuro appoggio dall’amministrazione Bush) sembra essersi definitivamente trasformata in certezza, dato l’atteggiamento che gli Stati Uniti stanno tenendo in seno all’Onu. Sempre più analisti hanno ripreso questa linea di interpretazione, osservandone principalmente due aspetti: il più “pessimista” (o il più cinico, o il più realista… scegliete voi l’aggettivo migliore) dice che Bush abbia dato un via libera assoluto ad Israele in questi anni e in particolare ora, affinché l’alleato mediorientale riuscisse finalmente a fare quello che l’amministrazione Usa vuole da tempo: eliminare Hamas, in quanto organizzazione terroristica e quindi parte di quell’”asse del male” contro cui Bush ha votato la sua presidenza. Ovviamente, l’eliminazione di Hamas è solo uno degli obiettivi della più ampia “lotta al terrore” americana; ugualmente però, la tenacissima amministrazione Bush non poteva evitare di provare a piegare anche questo nemico (dopo che in meno di otto anni aveva già invaso Afghanistan e Iraq, e sfidato, indirettamente e senza successo, Hezbollah in Libano).
Questa operazione sarebbe così l’ultimo segno della corrente amministrazione (e dottrina) Bush: se la vittoria contro Hamas fosse completa, gli Stati Uniti e Israele raggiungerebbero di fatto un risultato incredibilmente importante. L’influenza (e la minaccia) iraniana sarebbe ridimensionata e molti paesi arabi moderati sarebbero infinitamente grati (e ancora più legati) agli Usa (ma di questo aspetto parlerò più avanti) e, soprattutto, la forza di deterrenza israeliana nei confronti di Siria, Iran e Libano tornerebbe a livelli più che rassicuranti. Peccato che, usando un’espressione letta nei giorni passati, sia più facile prosciugare il mare da Gaza che estirpare Hamas tra i palestinesi della striscia… a maggior ragione dopo un attacco militare… ma nessuno, né al di là dell’oceano, né al di là del muro di cemento che separa Gaza da Israele, sembra in grado di comprenderlo.
L’altra versione sull’appoggio americano all’operazione a Gaza dipinge le cose in maniera più ottimista, addirittura lungimirante. Si afferma che gli Stati Uniti stiano sostenendo “ora”, in pieno, Israele proprio perché, in questo modo, tutte le accuse e le colpe ricadranno solo sull’amministrazione Bush. Questo, che può sembrare un clamoroso autogol, si trasformerebbe in un formidabile vantaggio tra meno di venti giorni, quando Obama entrerà in carica. Obama, infatti, avrebbe così le mani libere per operare “una svolta” in Medio Oriente, proponendo (e facendo attuare) la tregua e un nuovo processo di pace. Egli, in questo modo, raccoglierà esclusivamente i benefici d’immagine della ricostruzione e della pacificazione: lasciando alla passata amministrazione il peso e le colpe per l’operazione militare, Obama potrà presentarsi “immacolato” al tavolo delle trattative. Un tavolo in cui americani e israeliani sperano, comunque, che Hamas non ci sia.
Come si vede, i due aspetti sono solo due diverse facce della stessa medaglia. L’essenza è che ad Israele si sta concedendo di annientare un’organizzazione legittimamente eletta, secondo i propri -esclusivi- calcoli di interesse politico. Nessuno sembra tenere o rappresentare gli interessi dell’altra parte in causa, e allo stesso tempo sembra troppo poco sperare in una “eventuale” opera di pacificazione da attuare nel prossimo futuro come garanzia dei diritti di un popolo che viene decimato ora dopo ora.
Se la volontà di Obama è veramente quella di cambiare le cose, a partire dal metodo e dall’approccio al problema, che deve essere sempre e comunque politico e non militare, di certo questo nascondersi e questo non esporsi (suo e di tutti i suoi uomini – e donne) celandosi dietro il fatto che “c’è un solo presidente per volta” fa cedere le braccia di fronte ad una situazione a Gaza che precipita di giorno in giorno: “events in the world do not necessarily wait for Inauguration Day in the United States”.
Mentre scrivo molti protagonisti internazionali si stanno incontrando in Medio Oriente per cercare di porre fine alle ostilità. Le “certezze” nello schierarsi da una parte o dall’altra riguardano, come detto, gli Stati Uniti e, seppure in misura minore, la Gran Bretagna: entrambi che continuano ad appoggiare quasi senza discussione l’operato israeliano. Bush ha addirittura parlato di persona in settimana (prima le dichiarazioni venivano dal suo portavoce), ribadendo che la responsabilità della situazione è esclusivamente di Hamas.
Le novità riguardano il ruolo, attivissimo, più che della Francia, del suo presidente: Sarkozy sembra volersi impegnare personalmente nella risoluzione del conflitto e in queste ore è in tour per le capitali mediorientali.
L’Unione Europea risponde “presente” all’appello degli oppositori dell’operazione militare, chiedendo con forza, e con una missione “europea” in Egitto e Israele, la fine delle ostilità. L’EU assegna le responsabilità del conflitto ad entrambe le parti e fa leva sulle condizioni umanitarie disastrose della striscia. Da qui però, si evince di nuovo la debolezza – puramente politica – dell’Europa Unita: non c’è una sola voce, non c’è un piano chiaro da presentare, non c’è un obiettivo di lungo periodo altrettanto definito, e per finire, c’è da fare i conti con l’imbarazzante presidenza ceca dell’Unione: come fa un presidente dichiaratamente anti-europeista e filo-israeliano a presentarsi a nome dell’Unione Europea come mediatore credibile nel conflitto israelo-palestinese?
La Russia sta cercando di inserirsi proprio in questo “vuoto”: con gli Usa nettamente schierati e con l’UE non ancora effi
cacissima, si è proposta proprio in questi giorni come mediatore al governo di Tel Aviv nel conflitto con Hamas.
E l’Onu? L’Onu, dal canto suo, fa quello che può: cioè poco, anzi pochissimo. L’organo che più di tutti (e quasi esclusivamente – in fondo è stato creato per quello) dovrebbe garantire la pace, si trova paralizzato dal puntuale e irremovibile veto statunitense, che nei giorni scorsi ha bloccato due risoluzioni del consiglio di sicurezza in cui si chiedeva il cessate il fuoco ad Israele.
La situazione internazionale sarebbe già abbastanza cupa in questo modo per i palestinesi, ma le peggiori notizie, in realtà, arrivano per loro dalla Lega Araba. È incredibile il loro atteggiamento remissivo e permissivo, addirittura troppo palese la malcelata soddisfazione di alcuni dei paesi moderati mediorientali per il fatto che Hamas venga fatta fuori dagli israeliani. Dato che le forze estremiste di opposizione, soprattutto quelle che vanno al potere tramite elezioni free and fair, sono una minaccia incredibile per i regimi di Egitto, Arabia Saudita e Giordania (tanto per fare degli esempi), i leader di questi paesi stanno camminando sospesi su un filo sottilissimo cercando di far combaciare il pubblico dissenso per l’azione israeliana e l’intimo sospiro di sollievo per l’indebolimento di Hamas (e di conseguenza dell’Iran). Comunque lascio approfondire questo aspetto e correggere le mie impressioni a chi di sicuro sa di più sul mondo arabo; sarebbe interessante vedere l’intreccio incredibile che questi paesi devono sostenere per far combaciare delle opinioni pubbliche furiose, un controllo serrato dello stato e una fedeltà più o meno di comodo agli Stati Uniti proprio in un momento come questo.
La conclusione, dal punto di vista internazionale, appare abbastanza sconfortante. La vera questione è: quali alternative ci sono? Chi è veramente in grado di convincere Israele a fermare l’attacco? Quali contropartite gli si dovrebbero assicurare per farlo ritirare da una posizione di forza così palese? Se anche si raggiungesse la fine dell’operazione militare, quale scenario sarebbe possibile dopo? Non un’occupazione di Gaza ovviamente, ma non sarebbe tollerato nemmeno il ripristino di Hamas… e allora?
In più, tenendo un occhio al vero motivo su cui abbiamo aperto questo blog, c’è da verificare quali scenari interni sta aprendo e aprirà questa guerra, sia in caso di successo che di “sconfitta” per Israele. Anche su questo argomento lascio a chi di dovere l’analisi, personalmente, mi sembra che quest’intervento abbia rimesso in gioco tutti, come se fosse una paradossale scommessa su cui tutti i protagonisti interni abbiano puntato ogni cosa, la Livni, Netanyahu e anche il Labour, grazie a Barack, che fino a poche settimane fa sembrava spacciato.
“All in” su Gaza, tanto si vince sempre.

Per saperne di più sulle elezioni in Israele in febbraio si consiglia:

http://knesset2009.wordpress.com/, un monitoraggio attraverso i media internazionali delle elezioni in Israele

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