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Scritto da nel Itaca, Numero 61 - 1 Luglio 2009 | 0 commenti

V – Il principe poeta

Itaca
Romanzo a puntate
Capitolo Quinto
Dove il potere spacca la poesia in testa alla filosofia
e cadono dieci guardie
Tu devi vedere il mondo, Odisseo, devi lasciare quest'isola – gli diceva Zenone – …pensa che potresti, facilmente, solo con un pochetto d'intraprendenza e di buona volontà, incontrare Zoroastro e parlare con lui, è solo una questione di distanze, ma le distanze si percorrono e si eliminano, fine del problema delle distanze, no? così come io ho sentito parlare di te e sono venuto qui per incontrarti – diceva – devi visitare Troia, poi, la città più bella di tutte, devi assolutamente visitarla – Odisseo lasciare Itaca non ne voleva sapere, non ci può nemmeno pensare: Questi boschi e questa montagna mi allevano da sempre, …senza questo bosco mi sentirei perso – dice.

Zenone invece ogni tanto scende al porto naturale dell'isola e sale sulle navi mercantili e si fa portare a zonzo, poi torna con dei regali per Odisseo: una volta gli porta un cane di pochi mesi che chiameranno Argo come la nave che ha vinto con Laerte una guerra; un'altra volta gli porta una lira e gl'insegna come suonarla, gl'insegna i canti ateniesi, i canti tebani, e presto Odisseo, che sempre era stato dotato di una fantasia senza limiti, comincia a inventarsi dei canti tutti suoi, e a scendere in città per cantare nella piazza, sotto la quercia secolare, s'inventa le storie fantastiche di grandi eroi e déi immortali, le loro avventure di tradimenti e piccole debolezze, tanto che Laerte non manca un'occasione per rimproverarlo di mettere in ridicolo con le sue storie le cose serie come sono gli dei, che sono la radice della nostra cultura – dice – indipendentemente dalla fede, …che hanno a che fare con la concretezza della vita contadina, le stagioni… – mentre lui Odisseo tratta tutto come qualcosa che non esiste, come un mito, e questo – diceva Laerte, in preda a uno dei suoi sproloqui – allontanerà la nostra gente dagli dei che oggi sono al nostro fianco, diventeremo degli adoratori delle forme per colpa della poesia, e dei banchetti dove le storie vengono raccontate, o delle piazze dove non si lavora e si passano le giornate sfaccendati…quel Zenone ha un'influenza maligna su di te – gli dice Laerte a Odisseo – e la vita nel bosco…ma fammi il piacere! tu devi stare qui con noi, nella città, e imparare come si governa un popolo, perché quando sarò vecchio toccherà a te di farlo – ma Odisseo non vuol sentire ragioni e continua a inventare storie sempre più fantascientifiche, e Laerte pazienta finchè non si arriva a cantare il viaggio degli Argonauti (impresa a cui lui stesso, Laerte, ha partecipato in gioventù ottenendo per conseguenza quest'isola che chiamerà poi Itaca, lui con suo padre) a sentire Odisseo che canta degli Argonauti e di Orfeo che sfida le sirene, lì Laerte succede che strappa la lira di mano al figlio bastardo: Queste sono tutte scemenze – dice tutto d'un fiato – non abbiamo mai incontrato sirene né altri mostri e non è sopportabile che una fatica così grande che ha assicurato a tutti noi Achei gli sbocchi commerciali che ora fondano la nostra sopravvivenza nel mediterraneo vengono adesso ridicolizzate a questa maniera e mitizzate come ci fossimo messi in un'impresa senza senso per una questione di principio, come stupidi…

E Zenone: Posso dire?

  • Cosa
  • Eh, non so, dire una cosa
  • Eh.

ScusamidivinoLaerterediItacascusamiset'interrompo – dice – ma le vicende marinare non sono mica importanti.

  • Ma cosa dici, tu?
  • Eh, io, quello che volevo dire l'ho detto – gli fa Zenone al re.
  • Eh? – tutti erano a bocca aperta.

  • No, no, io dicevo così.
  • Ah, volevo ben dire.
  • Allora se non dispiace…
  • Cosa
  • Eh, se posso dire…
  • Ancora?
  • Io, quello che penso…posso parlare?
  • Eh! Giove d'un cane!
  • Ecco, io direi così, …scusa ancora se t'interrompo…divino Laerte…ecco:in sé e per sé, dico io, il passato è passato, le vicende marinare va bene, ma è importante di più il canto che ne viene fuori, …no? – dice.

Se ne stava lì tutto sorridente, Zenone, bello soddisfatto di quel suo nuovo paradosso appena appena pensato e subito detto. Laerte, che già aveva in antipatia quel ragazzo che viene nella sua isola a fare il suo comodo senza mai partecipare una sola volta ai sacrifici pubblici e che aveva messo in testa al principe di fare il poeta, Laerte prende la lira e gliela spacca in testa al vagabondo, e dieci guardie con i bastoni tutt'intorno, pronti a uccidere il ragazzo col metodo itacense (spezzare a bastonate tutte le ossa) l'unica cosa è che poi alle guardie, con una velocità mai vista, una freccia dopo l'altra dieci frecce gli passano la gola a uno per uno: Zan, Zan, Zan, Zan, eccetera. Si rimette l'arco in spalla Odisseo: Capito, Laerte? – dice – …che io quando vedo certe cose mi viene un prurito, qui alle mani, che tanti discorsi non è sempre aria, dico io. Poi se mi sbaglio saranno i vostri dei a decidere, e a punirmi s'è il caso, …perché nessuno di voi lo potrebbe fare, mi sa – e Odisseo con Zenone se ne ritornano in cima alla montagna, tra i boschi, seguiti dal cane Argo tutto scodinzolante, che ormai è bello cresciuto e pronto per accompagnarli nella caccia.

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