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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 68 - 1 Aprile 2010 | 0 commenti

Una parola è di troppo



So che un giorno è arrivato il linguaggio, con il suo passo gutturale, spinto fin da giù, dal diaframma.

Mi hanno fatto capire che lo si impara lentamente, con asprezza, e che a ogni sua conquista corrisponde di pari passo una perdita. Poi mi hanno insegnato che il linguaggio si fa nei secoli, su quelli portati sulle spalle, e mi hanno detto che ogni parola serve a supplire una mancanza, un vuoto che si è creato tra noi e il mondo, e che ogni forma verbale va usata con cautela, come il giusto ago di sutura del chirurgo, facendola passare per i lembi di carne della realtà. Infine mi hanno ricordato che si scrive per sanare le ferite, per catarsi o per salvare un rapporto consumato.

Così va a finire che ci passa addosso tutto d'un colpo l'otto marzo, come un lento decadimento umano, di cui senti susseguirsi le scuse le odi i panegirici le allusioni le rimembranze le poesie, esattamente in questo modo, senza punteggiatura, gettate fuori dalle bocche di dovere e un po' commiserate. Alla fine tra le dita ci rimane una cosa che sa di obbligo, che combatte sì la privazione e lo squilibrio, ma in modo forzato, in modo innaturale.

La poesia è sempre la ricerca del presente perduto” scriveva Raboni e io l'ho sognata questa frase, che verseggiava nei sogni, sopra il capo di donne rubate a se stesse.

Il nostro problema è che non sappiamo slegarci dalle nostre terribilità , dai nostri spaventi storici: si ricorda la Shoa perché si ha paura di dimenticare, si ricorda la liberazione perché si ha il timore che la sua memoria perda di valore, e si ricorda l'otto marzo perché ci siamo arresi all'evidenza che le donne non saranno mai libere senza l'istituzionalizzazione di una ricorrenza che ne sancisca l'uguaglianza sociale.

Ed allora, per mantenere attiva la memoria del nostro impegno civile per loro, si scrive e si racconta e si lotta per fissare le radici di ciò che si ha paura di perdere, e così facendo si dimentica il paradosso, quello che sta nel fatto che si può perdere solo ciò che non si è mai acquisito veramente.

Questa uguaglianza, questa pretesa di pari diritti, questa decisione di denunciare il vero problema sicurezza che è la violenza domestica, di denunciare la vera tortura che sono le amputazioni genitali, la vera ingiustizia che è la disparità giuridica, la vera privazione che è l'immobilismo sociale si conclude nell'incapacità di dare a queste lotte un'autonomia che le porti a trasformarsi in diritti naturali, assodati, incontrovertibili : “sta tutto scritto / sta tutto signato” (come diceva De Filippo) ma in queste parole dimostriamo di non saper rendere questi diritti uno stabilepatrimonio umano.

Così si potrebbe andare avanti, e scavare questo foglio di inchiostro e renderlo tanto nero da farlo diventare livido: tutto ciò che scriviamo vale come una tacita ammissione di debolezza o di incapacità d'agire, vale come una piccola rassegnazione: scriviamo per curare la nostra paura, per santificare il nostro sforzo contro questa nullificazione muliebre, contro questa reificazione della femminilità, questo asettico e mercificato riutilizzo della sua immagine.

Possiamo renderci consapevoli che il valore della loro libertà non è mai stato realmente acquisito, e che ogni parola pronunciata in questo senso vale solo a sperare che domani non ci sia più necessità di scrivere, che domani l'inchiostro sia seccato. Sempre sperando, in mutua attesa, sperando di rifare nostro questo presente-assente che ora ci sfugge e che imprigioniamo in gabbie di carta.

Dedico le mie seicentodiciotto parole a loro, a tutte le donne, come un vessillo di una incompiuta vittoria che attenderà il tempo in cui l'otto marzo non avrà più motivo d'essere.

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