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Scritto da nel Numero 117 - 1 Marzo 2015, Politica | 0 commenti

Il collegio uninominale come argine al trasformismo

Il collegio uninominale come argine al trasformismo

Questa legislatura, neppure giunta a metà strada, ha già segnato un poco onorevole record: ad oggi, sono 184 i senatori e deputati che hanno cambiato gruppo parlamentare. Questo dato è sufficiente ad alimentare la riflessione aperta dal nostro direttore nello scorso numero dell’Arengo (n°116, 1 febbraio 2015) sull’art. 67 della Costituzione. Che recita: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».

Beninteso, è interamente condivisibile quanto scritto da Tobia Desalvo. E’ deprecabile che il gruppo di comando del Partito democratico spadroneggi nell’imporre l’agenda politica, apostrofando in maniera spietata il parlamentare dissenziente dalla linea ufficiale attraverso la più classica ed utilizzata delle tecniche berlusconiane: la gogna mediatica. D’altronde è opportuna la comparazione con la democrazia americana «dove mai nessuno si sognerebbe di chiedere le dimissioni di un deputato o un senatore perché in dissenso dalla linea del partito».

Ciò detto, i numeri succitati non possono passare inosservati. Anche perché, il partito che maggiormente ha beneficiato di questa nuova ondata di trasformismo è giustappunto quello che governa, il Pd. La tentazione di salire sul carro del vincitore è del resto irresistibile per l’italiano medio. Perciò la questione sulla perdurante opportunità dell’articolo 67 è tornata timidamente in auge, se non altro per tutelare il rapporto tra eletti ed elettori.

Si può banalmente osservare che il modo più efficace per garantire il sacrosanto divieto di mandato operativo per il parlamentare senza snaturare la responsabilità del rappresentante nei confronti del suo elettorato va ricercato in un adeguato sistema elettorale. Una soluzione potrebbe essere quella di ripristinare l’uninominale: ogni collegio esprime un solo vincitore cosicché il rappresentante non potrà non tenere conto della responsabilità che lo lega ai suoi elettori, che lo avranno scelto in base al programma presentato in campagna elettorale. Di conseguenza, per il parlamentare la scelta di cambiare casacca diventerà molto più articolata e pesante poiché dovrà politicamente renderne conto ai propri elettori, geograficamente individuabili; pena la mancata riconferma nella successiva tornata elettorale.

Sono calcoli che oggi il rappresentante può tranquillamente non prendere in considerazione grazie (a causa) del sistema elettorale con il quale è stato eletto. In questo senso il porcellum garantisce massima libertà di trasformismo senza grattacapi per il transfuga. Né l’italicum prevede un’inversione di rotta in questo senso. Si calcola, infatti, che con il modello di legge elettorale che la maggioranza sta ostinatamente portando avanti, soltanto meno di un terzo degli eletti saranno scelti dai cittadini con le preferenze, mentre tutti gli altri (e, per intero, le minoranze) saranno nominati dai partiti in virtù delle liste bloccate.

A proposito di legge elettorale: bene fa Pierluigi Bersani, rottamato troppo in fretta, a ricordare al suo partito che essendo decaduto il patto del Nazareno, definito il maggior ostacolo alla cancellazione dei capilista bloccati, la legge elettorale in discussione si può cambiare tranquillamente, senza patemi. A meno che, come ipotizza Marco Travaglio, non sia proprio Matteo Renzi a volere fortemente un parlamento di nominati.

Il collegio uninominale genera altri effetti benefici. Questo sistema aiuterebbe a ricucire lo strappo che si è creato, in termini di fiducia, fra il cittadino e la politica. Innanzitutto nessun candidato, neppure i segretari di partito, sarebbero sicuri di entrare in parlamento, ma dovrebbero guadagnarsi questo onore ascoltando i cittadini e proponendo soluzioni fattibili ai problemi sollevati dal basso. E vincendo la battaglia politica sul territorio, in competizione con le idee dell’avversario politico. L’uninominale assicurerebbe in massima forma l’accountability ovvero la valutazione dell’operato dei singoli rappresentanti da parte dei rappresentati, che non avrebbero problemi ad individuare i responsabili della buona o della cattiva azione politica, agendo poi di conseguenza alle successive elezioni, premiando o bocciando in base a chiari contenuti il candidato votato in precedenza.

Queste sono semplici considerazioni espresse oramai da gran parte degli analisti politici in questa epoca. Ma pare che il governo non voglia tenerne conto. Legittimo: ma almeno proponga un’alternativa decente, smentendo con decisione quanto ipotizzato da Travaglio.

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