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Scritto da nel Economia e Mercati, Numero 49 - 1 Novembre 2008 | 7 commenti

La crisi vista dagli economisti

La crisi vista dagli economisti

“Questa crisi dimostra il chiaro fallimento del Pensiero Economico Dominante di questi ultimi due-tre decenni. Un pensiero che ha esaltato la finanza sull’industria, il debito sul capitale di rischio, la liberalizzazione, la privatizzazione e la deregulation. Diversamente dai casi Enron o Parmalat in questa crisi non c’è fraudolenza, tutto è avvenuto nel rispetto delle regole. Diversamente dall’11 Settembre non ci sono stati shock esterni, aeri che precipitano o Tsunami che spazzano via tutto. Questa crisi è endogena al sistema, dimostrando come i modelli di business e di regolazione scelti non fossero adeguati, necessitando revisioni e correzioni”.
Anonimo Bolognese 
L'economica è oggi ritenuta una scienza a tutti gli effetti. Scienza economica per l’appunto. Questo grazie al suo approccio rigoroso, alla sua metodologia scientifica.
Tuttavia, a differenza delle scienze naturali, i fenomeni studiati dall’economia non possono essere prodotti e riprodotti artificialmente in laboratorio.
Il laboratorio dell’economia è il mondo stesso. Se volessimo studiare gli effetti della disoccupazione non sarebbe possibile recarsi in un Paese, varare delle politiche che portino la disoccupazione al 20%, osservare cosa succede, per poi ripetere lo stesso esperimento nel Paese limitrofo. Alcuni economisti vorrebbero poterlo fare, ma la società (fortunatamente) glielo impedisce; e forse è proprio per questo, che sotto sotto, questi economisti, nell’osservare l’attuale crisi economica in atto, godono da matti.
Eh sì, perché diversamente da manager, banchieri e bancari, con questa crisi gli economisti non rischiano nè il posto e nemmeno un processo per concorso di colpa. Chi ha provato a farglielo, come Sartori nel Corriere, è stato sommerso da critiche su critiche da parte di tutto il mondo accademico economico che, almeno per una volta, ha mostrato grande compattezza.
Ma non facciamo d’ogni erba un fascio. All’interno della categoria degli economisti le differenze sono immense, per ideologia e metodologia. 
Ci sono quelli che davanti a questa crisi si disperano, che ancora non riescono a capacitarsi dell’accaduto. Loro lavorano sui modelli teorici e sono convinti che la realtà dovrebbe adeguarsi al modello, e non viceversa. Nei loro atteggiamenti, questi economisti non sono dissimili dai compagni nostalgici che ancora conservano in salotto il busto di Stalin o che non sono disposti ad ammettere che Gianna Nannini sia lesbica.
Poi ci sono i fondamentalisti del liberismo, che fanno capo al professor Giavazzi. Questi economisti, i fedelissimi alla linea, sono ancora convinti che vada tutto bene, che in questa crisi non ci sia niente di sbagliato (What's wrong?). I Talebans sostengono che la crisi sia fisiologica e faccia parte del corso naturale del capitalismo. Per loro le banche ed assicurazioni a rischio andrebbero fatte fallire perchè il libero mercato, facendo il suo corso, riporterebbe tutto in equilibrio. “Ma a quale prezzo?” verrebbe da chiedersi; “al prezzo fissato dal libero mercato” risponderebbero loro, ovviamente.
Ci sono poi i liberisti convertiti, pronti a rivedere le loro posizioni. Ed ecco che magicamente sui giornali compaiono frasi del tipo “il primo grande errore è stato privatizzare Fannie” e “se un'impresa non può fallire deve essere fortemente regolamentata o meglio posseduta dallo Stato”. Intendiamoci, fino a pochi anni fa nessun liberista si sarebbe mai sognato di sostenere una posizione del genere; il paradigma categorico suonava più o meno così “the best form of regulation is no regulation at all”.
Ed eccoli invece gli economisti che oggi godono a dismisura.
Da un lato si trovano quelli dell’ “io l’avevo detto”. Sono quelli che in salotto invece di Stalin tengono la copia originale in tedesco del Capitale di Marx (vedi questo articolo molto chiaro e provvidenziale pubblicato a Maggio sull'Arengo). Tra questi uccelli del malaugurio si trovano in realtà anche economisti liberali e liberi dall'ideologia. Persone come Nouriel Roubini, Krugman o Stiglitz o Shiller che avevano capito e denunciato le falde di questo sistema. 
E poi ci sono gli economisti che vedono in questa crisi la possibilità di una crescita esponenziale delle proprie pubblicazioni. Per loro, questa crisi è quell’esperimento da laboratorio che avrebbero sempre sognato di fare finalmente divenuto realtà. Di questa crisi adesso possono studiarne le cause, l’evoluzione, i suoi effetti, e gli interventi necessari affinché essa non si riproponga in futuro. Queste sono forse le uniche persone che da questa crisi trarranno qualche beneficio concreto. Grazie alla loro capacità di analisi del reale.
Ed ecco infine l’ultima categoria di economisti, quelli che di questa crisi, tutto sommato, non gliene frega più di tanto. Questi economisti si occupano di tutt’altro, analizzano la correlazione tra l’altezza di una persona ed il suo reddito, studiano il nesso di causalità tra le soap opera e la fertilità in Brasile. Argomenti trendy, freaks che gli garantiranno una bella pubblicazione in una top review internazionale.

Questi economisti, oggi, sono in netta maggioranza.

disegno di Anna Ciammitti

7 Commenti

  1. viva Sartori, uomo di buon senso, a differenza di molti economisti

  2. Il papa veste solo di bianco….

  3. Poveri economisti,
    in primis sono in pochi ad ascoltarli, e soprattutto non sono loro i principali responsabili, ma le banche ed i manager ed i governi con politiche di sostegno sociale..gli economisti proponevano anche di mettere una tassa sulle transazioni finanziari, ma nessuno gli ha ascoltati

  4. Ho una domanda per voi economisti: quali sono o saranno le conseguenze di questa “nazionalizzazione” delle banche? Per i cittadini ne verranno fuori dei benefici o delle perdite?

  5. In teoria la risposta potrebbe semplificarsi così:
    le banche vivono una crisi di liquidità, ma si può supporre per es che il valore degli immobili svalutati (all'origine della crisi dei subprime) possa tornare a valori maggiori dopo un certo periodo di tempo. In tal caso lo Stato garantendo la liquidità oggi, potrà rientrare dell'investimento dopo il lasso di tempo e così facendo anche guadagnarci.

    Questo richiede una gestione oculata quando lo Stato regolarizza la propria posizione rispetto alle banche e fino al momento in cui tale profitto si produce.

    In realtà lo Stato non è una banca e tali competenze per ottenere una gestione efficiente sono costose.
    Inoltre occorre fare in modo che tali salvataggi non abbiano l'effetto di incentivare future gestioni rischiose.

    In Svezia credo che in una crisi bancaria di qualche decennio fa sia successo che lo Stato alla fine ci abbia guadagnato.

    Niente a che vedere con un coacervo di partecipazioni statali/private in Italia a occhio e croce.

  6. ciao Angelo,
    i benefici se arriveranno non arriveranno domani ma saranno il frutto di un processo doveroso e lungo di ristrutturazione del sistema.
    credo che la nazionalizzazione non possa essere una soluzione in sè. e nemmeno il semplice riempimento delle casse delle banche con nuova liquidità.

  7. Questo è il primo articolo che leggo, del resto Tobia mi ha parlato dell'arengo solo ieri, ma sono certo che non sarà l'ultimo…..solo smancerie, per ora…bravi, ben fatto!!

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