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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 65 - 1 Dicembre 2009 | 0 commenti

I risentimenti di un torturato

-Leggere la tortura con Jean Améry-

Sono rari i momenti della nostra vita in cui abbiamo il coraggio e, allo stesso tempo, la capacità di gettare uno sguardo a quella che è la realtà nella sua immediatezza, a maggior ragione se il suo farsi evento non ci concerne, è a noi estraneo. E' ammirevole, allora, l'opera di mediazione messa in atto da coloro i quali hanno vissuto in prima persona tale evento, con il solo fine di condurci alla soglia di quella realtà, lasciandoci intravvedere quale sia la sua natura e la forma che essa assume.
Costante punto di riferimento della nostra analisi della tortura come massima forma di violenza perpetrata dall'uomo nei confronti dell'uomo, sarà il libro di Jean Améry dal titolo Intellettuale ad Auschwitz (ristampato nel 2002 da Bollati Boringhieri), e in particolare il capito espressamente dedicato alla tortura. Arrestato dai nazisti nel 1943 per la sua attività di resistenza, torturato e poi internato nel campo di concentramento di Auschwitz, J. Améry, pseudonimo di Hans Mayer, ci offre qui, a partire dalla propria esperienza, un'indagine fenomenologica della pratica della tortura, tesa a far emergere la “verità” di questa pratica ancora diffusa, e forse tacitamente accettata, al di là di qualsiasi astrazione.

La tortura, come forma di violenza, trova la sua caratteristica principale nella violazione dell'Io di un uomo da parte dell'Altro, senza che questa violazione possa incontrare alcun ostacolo; infatti, l'Io, solo, abbandonato a sé stesso, non può difendersi, non può trovare alcun rifugio nella speranza di soccorso perché inesistente. Tutto ha inizio con la prima percossa. Essa segna non la perdita della propria dignità umana, concetto assai sfuggente e abusato, ma della fiducia nel mondo, ovvero della certezza che sulla base di contratti sociali scritti e non scritti, l'altro avrà rispetto della mia sostanza fisica e di quella metafisica che Kant avrebbe chiamato “persona”. Nel dolore della tortura siamo ridotti a mero corpo e proprio questa riduzione spiana la strada verso l'esperienza della massima contraddizione: vivere la propria morte. Nel subire la violenza torturatrice dell'Altro, si vive la propria morte, si è ancora vivi ma allo stesso tempo qualcosa in sé è già morto, ridotti come si è a corporeità carica di dolore. “Il prossimo è reso carne e nel farne carne già condotto nei pressi della morte; se necessario sarà infine sospinto oltre il confine della morte, nel Nulla.” (p. 76). Colui che esercita la tortura determina un completo rovesciamento dell'ordine sociale, basato sulla fiducia e il riconoscimento, ove noi possiamo vivere solamente se concediamo all'altro il diritto all'esistenza. Tutto ciò genera stupore in colui che viene torturato, meraviglia per il fatto che la propria anima, la propria coscienza, la propria identità vengono annichilite in maniera indelebile e irrevocabile. “Nel torturato si accumula lo sgomento di aver vissuto i propri simili come avversari: da questa posizione nessuno riesce a scrutare verso un mondo in cui regni il principio di speranza.” (p. 82). La vita di coloro che sono stati oggetto di tortura sarà per sempre contrassegnata dall'angoscia, e con essa si accompagnerà ciò che chiamiamo “risentimenti”.

È proprio nei risentimenti che la lucidissima e violenta analisi della sconfitta dello spirito da parte di Améry si concretizza, fino ad assumere i tratti di una vera e propria accusa di sadica malvagità nei confronti dei propri carnefici, al di là di qualsiasi disponibilità, insensibile e indifferente, alla conciliazione sotto l'effetto curativo, ma antimorale, del tempo “naturale”. Solo la violenza della denuncia, l'irrispettosa volontà di portare alla memoria di tutti l'annientamento della morale, può aprire quel piccolo spiraglio di possibilità per un'autentica riconciliazione a livello della prassi storica: i due schieramenti umani, sopraffatti e carnefici, i primi nella loro rivendicazione di giustizia, i secondi nell'assunzione della propria colpevolezza, “si incontrerebbero nel desiderio di inversione del tempo e quindi di moralizzazione della storia” (p.132).

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