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Scritto da nel Energia e Ambiente, Numero 32 - 1 Febbraio 2008 | 0 commenti

Le origine teoriche dell' Emissions Trading Scheme

Il bazar – come vendere un ghiacciolo a un eschimese

Tra le cianfrusaglie esposte in una bancarella di spaccanapoli il sig. Brambilla scorge una piccola ampolla, la cui etichetta recita “ARIA DE NAPULE”. Divertito dalla trovata, chiede subito delucidazioni al commerciante. “Dottò, accattateve qist'ampolla e quando tornerete in miezz' a nebbia godrete di 'nu poco 'e sole e mare; 15 euri, e vi portate a casa tutta Napule”.

“Uè patacca – risponde il commenda – son milanese, mica pirla. L'aria non è in vendita. Se voglio mi compro una provetta, e l'aria di Napoli me la porto a casa con 50 centesimi, capito?”.

“Tenete ragione, dottò” risponde Gennarino “ma ch' aggià affà mò con tutta st'aria che tengo? La jetto in mezzo 'a via? Jamm' che di munnezza già ne tenemmo assaje. Facimmo 5 euro e non se ne parla 'cchiù”. “Beh, 5 euro l'aria di Napoli certo non li vale, la tua simpatia magari si. Affare fatto”.

Le origine teoriche della proprietà

In effetti l'aria non è un bene prezzabile e nessuno detiene un diritto di proprietà sull'aria. Ma qual è quindi il principio generale secondo cui l'aria non è contrattabile, mentre, ad esempio, l'acqua si? Qual è, in sintesi, l'origine della proprietà?

Molti i dibattiti intorno a questa domanda che interroga la sfera della filosofia del diritto.

Secondo Locke la proprietà è un diritto naturale, frutto diretto del sudore del nostro lavoro. Un concetto riconducibile alla parola latina ius.

Se prendo una tela bianca e la dipingo, quel quadro sarà mio di diritto. Non diversamente, madre Cornelia introduce i propri figli dicendo “ecco i miei gioielli”.

La corrente contrattualista di Hobbes sostiene invece che i diritti di proprietà non esistano in natura, in assenza cioè di un'istituzione con il potere coercitivo necessario a definire tali diritti e farli rispettare. Ecco quindi che il diritto di proprietà diventa più simile al concetto di lex.

Le due interpretazioni non sono necessariamente esclusive; al contrario, è forse la combinazione stessa di ius e lex la base dell'origine del diritto di proprietà.

Rimane tuttavia ancora da definire perchè un bene sia soggetto o meno al diritto di proprietà.

È la scienza economica che offre una chiave di lettura interessante. Vale la pena ricordare la Tragedy of the Commons, un breve articolo comparso nel 1968 sulla rivista Science e ormai divenuto una pietra miliare del pensiero liberale.

L'autore Garret Hardin descrive una scena pastorale tipica dell'Inghilterra pre-Vittoriana e si chiede cosa succederebbe a un terreno collettivo (il Common) in cui diversi pastori portino usualmente il proprio gregge al pascolo.

Essendo il terreno libero da ogni diritto di proprietà, ogni pastore sarà libero di utilizzarlo a suo piacimento. Parliamo quindi di un bene il cui consumo è rivale (l'uso del bene da parte di un individuo impedisce l'utilizzo dello stesso bene da un altro) e non escludibile.

Certo, una gestione collettiva del terreno è possibile, ma il suo costo crescerà al crescere del numero di pastori, quindi delle scelte da coordinare. Inevitabilmente, sostiene Hardin, la gestione collettiva del Common diventerà sempre più complicata e costosa. La terra in questione è terra di nessuno, e la possibilità di poterla sfruttare a proprio piacimento e senza alcun costo si fa tentatrice. La cooperazione sarà quindi messa a repentaglio ogniqualvolta un pastore trovi più conveniente anteporre i propri interessi a quelli generali.

La sua scelta libera (free-riding) comporta un costo per la società, il progressivo deterioramento del terreno stesso. Ecco la tragedia: uno sfruttamento eccessivo del Common ed un suo successivo abbandono. Quale pastore sarebbe infatti disponibile a seminare un campo, a far ricrescere l'erba davanti al rischio che chiunque possa far pascolare le proprie pecore a gratis nel terreno da lui coltivato?

Immediata la conclusione di Hardin: senza proprietà, non c'è investimento e non c'è crescita.

Immediata anche la sua soluzione: istituire un sistema di diritti proprietari al fine di proteggere le risorse in questione ed incentivarne lo sviluppo.

L'intera questione non verte intorno al dilemma “proprietà pubblica o privata”, ma piuttosto intorno all'assenza o l'esistenza della proprietà stessa, di qualsiasi natura essa sia.

C'è tuttavia una condizione che deve essere soddisfatta affinché tutto il ragionamento torni: il bene in questione, il Common nell'esempio di Hardin, deve essere disponibile in quantità scarse.

D'altronde senza scarsità non ci sarebbe alcun problema di scelta, i beni non avrebbero un prezzo, i mercati non esisterebbero e la proprietà, come la scienza economica stessa, non avrebbe ragione di esistere. Beni come i raggi del sole o la pioggia, che non sono esauribili non hanno né prezzo, né mercato, né proprietà.

Similmente nella filosofia marxista la strada per l'abolizione della proprietà è la caduta del saggio del profitto, il passaggio dalla scarsità all'abbondanza.È quindi la scarsità del bene a generare il bisogno di proprietà. La ragione per cui l'acqua potabile ha un prezzo mentre l'aria non ce l'ha.

O per lo meno non ce l'aveva. Perché come il terreno dei pastori inglesi anche l'aria è un Commons e come nell'esempio di Hardin l'attività economica dell'uomo ha portato ad un deterioramento progressivo di questo bene collettivo.

Nel momento in cui la qualità dell'aria diventa un bene scarso (e di lusso) i Paesi firmatari del Protocollo di Kyoto cercano una soluzione proprio attraverso l' istituzione di un sistema di permessi, ciascuno dei quali dà il diritto ad emettere una tonnellata di anidride carbonica. I privati esercitano un diritto di proprietà su questi permessi (e sul diritto di emissione) che possono liberamente commerciare in un mercato ufficialmente istituito in Europa nel 2005: l'European Emissions Trading Scheme.

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