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Scritto da nel Numero 6 - 16 Novembre 2006, Tempo e spazio liberi | 0 commenti

H Seconda Parte

Continua dal numero scorso

A quel tempo frequentavo il Polo Didattico per seguire certe lezioni. Lezioni propedeutiche per il seguito del corso di laurea, come quelle di lingua e letteratura inglese. Ma i miei interessi convergevano su materie quali ermeneutica e filosofia teoretica (e credo che ciò abbia influito sul fascino che ebbe su di me l'evento in questione), e mi dedicavo a questi studi con una certa morbosità, forse propria anche del mio carattere, ed insomma non ero certo a mio agio tra i veri fruitori del Polo, che perlopiù erano ragazzi e ragazze che amavano studiare in compagnia, e forse più per la compagnia che per lo studio, e forse in realtà amavano e basta, nel senso più comprensivo che vi venga in mente, capacità relazionale che lì, in quel posto, loro sapevano coltivare e che io invece provavo a cercare in altre contesti universitari, più chiusi ed effimeri, come le lezioni, non concludendo mai nulla di buono, nutrendo infatuazioni per alcune compagne senza mai entrarci od uscirne del tutto. Di fatto, ho avuto pochissimi amici all'università, e ancora meno flirt, e a quest'ultimi però mi sono dedicato per anni, con fissazione, senza arrivare a niente, punto. Né relazioni, né vere amicizie, solo stupidi giochini di parole e di sentimenti, e fraintendimenti e poi rotture, rotture di quel tipo dove sei quasi sicuro che un giorno troverai la colla giusta, e allora via da capo e chissà. Non riuscivo quindi a vivere con la spontaneità, la consapevolezza di se stessi, la leggerezza che sono proprie di quell'età e che trovano terreno fertile proprio in ambiti come quello scolastico, e sapevo di questa mia mancanza cosicché invidiavo tali qualità negli altri studenti e allo stesso tempo ne ero spaventato, e proprio in posti come il salone del Polo Didattico mi sentivo più fuori luogo, urtato e attratto insieme, come elemento di una gravità impazzita, dagli altri (e, mi capirete meglio più avanti, lì credetti di aver compreso davvero e pienamente il detto di Sartre: l'inferno sono gli altri, senza tante parafrasi. Più avanti mi resi conto che sbagliavo), dai loro atteggiamenti alla moda e del loro vestire significante, dal loro essere tribù, dalle ragazze con gli occhi grandi e le spalle magre e lentigginose e nude a l'odore dolciastro della loro pelle quando ti passavano accanto. Dalle loro droghe, dalle loro serate nei locali dei vicoli, dal loro vivere assieme, dalle loro relazioni sudate e istintive, dal loro fregarsene, dal loro impegnarsi. Ed io, come un ombra, come un fantasma fra i terreni che, volendo provare la vita degli uomini, non riesca a sperimentare su se stesso per che cosa, per quale strana nostalgia i mortali abbiano poi tanto da disperarsi una volta agl'inferi (e tutto torna, gira su stesso e torna sempre su quel fotogramma. Gli inferi, la visione). Se io, a mia volta con il mio modo di essere, ho attratto od affascinato qualcuno di loro, non me ne sono accorto, e se me ne sono accorto, come ho già detto, è comunque finita male.

Potete allora immaginarvi la gamma di pensieri che mi fece bufera nella testa, quel giorno come tanti, quando, essendomi attardato sulle seggiole alla fine di una lezione scrivendo un paio di note, uscito da un'aula del primo piano del Polo Didattico che era l'una abbondante, l'una pomeridiana di una giornata umida e plumbea, muovendomi per imboccare le scalette blu elettrico, voltai invece la testa verso la gradinata che discendeva nel salone principale, ed ebbi uno scorcio di quest'ultimo. Dalla mia visuale sembrava vuoto e pieno allo stesso tempo, nel senso che non c'era nessuno in vista, forse erano usciti un momento a comprare qualcosa da venire poi a mangiare lì o erano direttamente nei bar al caldo, oppure finite le lezione mattutine avevano preso i vari treni e autobus e andavano a casa, non so, però ogni tavolo era impegnato da carte e fogli, e borse, zaini, sacche, pacchetti di sigarette e lattine vuote, maglie e giacconi, lasciati lì da chi era rimasto nei paraggi ma aveva abbandonato il salone. I neon, in virtù della loro luce fredda e vigorosa, trasmettevano a tutti questi oggetti una condizione quasi esemplare, puramente oggettiva e didascalica, come cadaveri su di un banco di metallo, puliti e disinfettati e tagliati per mostrare una qualche evidenza scientifica. Soltanto che una di queste luci era instabile e tremula, e faceva vibrare e sfarfallare aritmicamente tutta l'immagine, aggiungendo al suo rilievo dimostrativo un che di agghiacciante (l'evidenza scientifica che non avremmo voluto farvi vedere). Dall'inizio con la coda dell'occhio, poi centrando lo sguardo e la coscienza, mi fermai, a questo punto ipnotizzato, sulla targa che denominava il salone. Qualcuno aveva scritto qualcosa accanto alla H. ell.

Hell. Inferno.

L'inferno innanzi a me, il sentiero che conduceva all'Abisso, un salone illuminato dalla convulsione di un neon, pieno dell'assenza di coloro che invidiavo e insieme compativo, assenza certificata dagli scarti della loro vita, dai loro avanzi. Lì capii che io non producevo scarti. In quell'istante compresi la lezione che voleva impartirmi la traccia lasciata da quei resti, cioè che la vita piena e vissuta realmente era altrove rispetto a me, passava da quel salone, da quel Hell per cui provavo nausea ed eccitazione, che non attraversavo per paura di scottarmi, forse, ma ai margini però ci stavo, a scaldarmi, a farmi illuminare da un poco del riflesso di quelle fiamme, rimanendo fintamente pulito e insipido e sterile.

Dopo pochi ma densi istanti, andai via. Avevo un treno da prendere e nessuno da aspettare. Tornai sempre meno spesso, durante il mio cammino universitario, al Polo Didattico, e quella specie di visione non mi aiutò ad impugnare meglio la mia vita, anzi fu facilmente trasformata in aneddoto, poi vago ricordo e quindi messa da parte. Solo ultimamente mi è capitato di tornare in quel luogo e di rivedere la targa, pasticciata da tante altre scritte. Come per sdrammatizzare. In questi anni poco è cambiato in me, forse però ho ribaltato quello che credevo essere l'insegnamento che quella visione si era proposta di disvelare.

L'inferno non sono gli altri in cui non ti riconosci. L'inferno sei tu stesso in cui non riconosci nessuno.

FINE

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