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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 0 - Estate 2006 | 0 commenti

La piazza degli inquieti

Il viaggio e la piazza medievale, due territori disomogenei costretti in sposalizio da un insolito binomio. Questa presunta difformità si è affacciata originariamente nei nostri cervelli come un piccolo ma rumoroso tarlo, crescendo d'intensità fino a divenire un'idea fissata su carta attraverso uno stravagante progetto editoriale.

Il tema del viaggio, per noi ragazzi con gli occhi pieni delle tavole color pastello di Pratt, è stato una necessità piuttosto che uno svago, un bisogno ancestrale d'avventure e di sfide contrapposto all'ozio artificiale inscritto fisiologicamente nelle vacanze all-inclusive. Da adolescenti, le tante giornate trascorse col portafoglio irrimediabilmente vuoto erano il naturale contrappasso pagato con gioia alla nostra voglia di conoscere, tradotta puntualmente nel nomadismo, talvolta lievemente malsano, che imperversava durante le lunghe parentesi estive.

Quello che fa muovere l'individuo è la curiosità, e l'arricchimento passa necessariamente attraverso il confronto e l'esperienza: le diverse lingue, i cibi più speziati, gli scorci evocativi restano un'inerte collezione di cartoline se non sono “vissuti” e soprattutto sapientemente interiorizzati. Per viaggiare, nel senso pieno del termine, bisogna essere disposti a rischiare qualcosa come al gioco, è una sorta di “do ut des” dal gusto lievemente sentimentale: mettiamo sul piatto della bilancia la tranquillità di una convinzione basata sulla consuetudine, e in cambio, con un po' di fortuna si può vincere un ricordo, un frammento, una verità che alla partenza ignoravamo. La lentezza è uno degli ingredienti fondamentali nella composizione di questa “arte” raminga: gli istanti si dilatano e l'ineluttabile fluire del tempo viene necessariamente percepito in modo diverso quando l'ammirazione e l'interesse s'indirizzano verso un ignoto che affascina. Il ripetitivo e vacuo susseguirsi d'istanti al quale siamo da sempre abituati viene ora scolpito nella memoria con un vigore sconosciuto, permettendo alla luce d'impressionare sapientemente la pellicola del ricordo.

Servendosi di questa prospettiva privilegiata, la filosofia del viaggio si può fondere senza iati nell'arengo medioevale, crocevia di genti, luogo dove mercanti avventurosi come i Polo, dopo aver sfidato il mare in tempesta o l'impervia via della seta, potevano impreziosire le proprie merci scandendo per orecchie incredule i racconti che le avevano felicemente accompagnate dal lontano oriente. La piazza era, infatti, il luogo dove il sapere tradizionale delle botteghe e delle corporazioni cresceva accanto ad un mondo che stava velocemente ampliando i propri orizzonti conoscitivi e geografici: setaioli e scultori, mercanti e avventurieri uniti in una sorta di avamposto magico e pre-razionale, dove per prime hanno fatto timidamente capolino le novità, ma anche, paradossalmente, dove gli abitanti erano più refrattari al cambiamento.

La vita con tutte le sue numerose e imprevedibili sfaccettature scorreva imprevedibile nelle piazze, momenti densi di autentico pathos come esecuzioni o riunioni di capifamiglia, si succedevano repentine a lampi dissacranti, a litigi tra pescivendoli o a uno scemo del villaggio che fattosi improvvisamente audace, prendeva la parola per arringare il via vai di cittadini incuranti e indaffarati.

Mi piacerebbe far sì che la medesima schizofrenia culturale sia il filo rosso capace di unirmi ai lettori e capace allo stesso tempo di animare questa rubrica filosofica, nella quale si potranno tranquillamente alternare analisi dell'estetica celiniana o dell'aut-aut kierkegaardiano alla dimostrazione della necessità improcrastinabile di una rivincita di paperino…

Cercherò, coerentemente con questo proposito, di tenere fede all'etimologia stessa del termine filosofia, dal greco PHILÊIN che significa amore e SOPHÍA che significa sapienza, e che utilizzerò quindi come sinonimo di un “generico” amore per il sapere, aperto e non autorferenziale. Del resto, già Amleto ammoniva l'amico Orazio contro la tentazione assolutizzante insita nel genoma stesso di questa disciplina: “Ci sono più cose in cielo e in terra [...] di quante ne sogni la tua filosofia.”

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