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Scritto da nel Economia e Politica, Numero 6 - 16 Novembre 2006 | 0 commenti

Urbe et orbi

Le città sono state la culla del sistema economico capitalista in Europa. Nelle città, in particolare quelle italiane, è nata la politica come aggregazione e conflitto di gruppi e interessi organizzati. Contro le città si è poi sviluppato lo Stato moderno, che ne ha dovuto sottomettere le particolarità, l'autonomia in ossequio a fini superiori e generali, di carattere mistico o di semplice potenza di un sovrano. Nell'età contemporanea lo stato nazione si configura come la dimensione istituzionale capace di racchiudere in sé e regolare i flussi economici, grazie al controllo sugli scambi commerciali, sulla moneta, con la costruzione dei sistemi di welfare. I mutamenti dell'economia mondiale occorsi negli ultimi quaranta anni rendono le strutture dello Stato nazione insufficienti a garantire la piena capacità gestionale dei flussi economici. Il livello locale, nei suoi indefiniti confini, emerge come locus privilegiato dell'amministrazione delle risorse, del loro ottimale sfruttamento, del loro potenziamento. E la città ritorna con ciò in auge come centro di aggregazione politico- economica, con spazi d'azione potenzialmente globali.

Lo studio dei sistemi locali occidentali si snoda su diverse prospettive, ed ha assunto solo da qualche decennio quella rilevanza che oggi gli si riconosce. La vastità della letteratura mi consente di sottolineare solo alcuni aspetti, non necessariamente i più importanti. Il primo problema che ci si trova ad affrontare è l'incertezza dei confini. Il termine città vale sia per Londra con i suoi otto milioni e più di abitanti che per Bologna con i suoi 400mila. Comprende sia le aree metropolitane attorno alle grandi capitali, sia quei crescenti hinterland industriali che finiscono per incorporarsi funzionalmente a città inizialmente molto più piccole, come Essen in Germania e tutto il bacino della Ruhr. La tendenza all'accentramento delle attività economiche – il clustering – ha conseguenze demografiche e sociali intuitivamente comprensibili: migrazione di lavoratori dalla periferia, formazione spesso sregolata di insediamenti abitativi attorno al nucleo urbano tradizionale, espansione dell'attività sociale ed economica di governo. E' evidente come tali sviluppi abbiano posto seri grattacapi ai legislatori nazionali nella definizione dei livelli amministrativi: in Italia si è giunti con puntuale ritardo alla designazione e all'implementazione delle città metropolitane, che dovrebbero guadagnare competenze nei confronti di aree prima separate tra città e provincia, oggi in alcuni significativi casi già funzionalmente unite. In gran parte d'Europa il passo era già stato inevitabile da un po'. Rimane il punto che la città odierna è ben più del suo centro storico, e delle industrie collocate nella stretta area urbana. Ai fini della gestione di sistemi infinitamente più complessi sono necessari adeguamenti amministrativi sofisticati. Il government della città è diventato governance.

La distinzione inglese riflette anche l'origine del concetto, scaturito dalle teorie nate nel mondo anglosassone. Governance è un termine dalle vastissime accezioni, ma che in generale denota il nuovo ruolo di un'amministrazione istituzionale oggi: il coordinamento dell'attività di diversi attori – pubblici e privati – per provvedere al raggiungimento di determinati obiettivi di interesse collettivo. Non basta dunque che una giunta legiferi e controlli per promuovere sviluppo e assicurare il benessere dei suoi cittadini. Con i servizi appaltati in misura crescente a società private, con le infinite virtuose sinergie tra diverse reti di attori sociali ed economici ruotanti attorno ad ogni campo di politiche (traffico, servizi sociali, pulizia delle strade, commercio…), che è necessario innescare, il governo ha un ruolo di guida, di timoniere. Il solo principio gerarchico non vale. Di più. L'adeguamento alle logiche di mercato trasformano la figura del Sindaco in un nuovo signore della città, eletto direttamente, con un sistema di governo forte, e il bisogno di spendere la propria immagine personale nella promozione della città che si incarna nel suo imprenditorialismo politico alla ricerca di uno status di rango per l'attrazione di investimenti e l'ottenimento di una centralità politica. Alcuni l'hanno definito neo- medievalismo.

La Comunità europea gioca un ruolo saliente in queste trasformazioni. L'espansione dei Fondi Strutturali dagli anni Ottanta ha stimolato l'impegno locale per l'ottenimento di cospicue risorse finanziarie aggiuntive, fondamentali in tempi di costrizioni di bilancio operate dai governi statali sui propri enti locali. Per le città più attive l'ombrello comunitario è diventato un'opportunità formidabile per evadere dalla farraginosità oppressiva dello Stato centrale, e sviluppare propri contatti e proprie politiche autonome. Poiché però una singola città da sola ha poche chances di ottenere attenzione nel pachidermico apparato comunitario, sono nate cooperazioni orizzontali tra città o regioni, che superano la classica forma del gemellaggio, e sboccano nella creazione di più vasti network tra un numero crescente di membri, i cui fini sono lo scambio di informazioni, la ricerca all'estero di soluzioni ai problemi da adottare domesticamente, un peso specifico maggiore in termini di lobbying a Bruxelles per l'espansione dei fondi o di processi decisionali che aumentino la possibilità delle città di avere parola nella formulazione delle politiche comunitarie. Il migliore esempio è rappresentato da Eurocities, uno dei network più partecipati e sistematici tra le città europee, cui fanno parte circa un centinaio di città, che si incontrano periodicamente in una serie di forum tematici.

E lo Stato nazionale, allora? Siamo ben lungi dal decretarne la morte. Le città, gli enti locali sono e continueranno ad essere fortemente dipendenti dalla sua giurisdizione, e dalle sue finanze. Nel processo di localizzazione della gestione economica e nell'aumento della centralità politica del locale c'è ben poco di implicito, di automatico. Lo stato appare più probabilmente in ricomposizione rispetto alla forma che siamo abituati a considerare. L'autonomia di cui godono le città moderne è frutto della riformulazione su determinati ambiti di politiche pubbliche dei rapporti fra stato e sue emanazioni amministrative, un processo avvenuto nel disegno di pianificatori nazionali, e da loro potenzialmente reversibile. Pensandoci un momento, lo Stato rimane l'unico garante dell'uniformità dello sviluppo economico e del rispetto dei diritti sociali su tutto il territorio. Il localismo è desiderabile solo all'interno di una griglia di standard minimi comuni a tutti, a Bologna come a Napoli, che ripartisca in modo giusto le risorse e crei opportunità, nell'assenza di una solida alternativa di garanzia comunitaria. Un effettivo neo- medievalismo non mi sembra sinceramente auspicabile.

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