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Scritto da nel Numero 5 - 1 Novembre 2006, Tempo e spazio liberi | 0 commenti

H – Parte Prima

Quindi mi trovai di fronte a questa specie di visione, e dico specie perché era chiaro, appunto, che la realtà che stavo osservando era proprio quella, tutto era proprio così come lo vedevo. Si potrebbe intenderla, anche se in modo paradossale, lo ammetto, come una lucida allucinazione, ma a ben pensarci mi stimola maggiormente chiamarla comunque visione. “Allucinazione”, seppur lucida, sa più di qualcosa che interviene a livello mentale nel distorcere o inventare la percezione, ad insaputa, come spesso avviene, del soggetto o della sua coscienza. “Visione”, invece, sembra marcare l'accento sulla centralità del percepito, della realtà, che però, come in un colpo di singhiozzo, sussulta e perde l'ordine per un istante, un istante appannato ma rivelatore, per poi ricomporsi. Mi sembra renda meglio l'idea di ciò che accadde, a partire da un'immagine assolutamente prorompente, in quanto tutto attorno a me era ben illuminato, strutturato e avvolgente siccome riempiva in modo ricco la totalità del mio campo visivo, suggerendo comunque una forza onirica densa e vibrante, simbolica, fantastica nel significato più ampio. E non nel senso di stare fermo a speculare su che bella immagine stessi guardando e quanto elegante e colma di contenuti, ma proprio perché in realtà rabbrividivo, rabbrividivo senza accezioni retoriche o liriche, attraversato per una manciata di istanti da quel tremore che sembra, quando lo si provi, e tutti l'abbiamo provato, come iniettato nella parte bassa della schiena, nei lombi, che negli istanti successivi si diffonde liquidamene su per il collo fino ai tessuti della bocca e giù scuotendo un istante le ginocchia per arrivare a risuonare nelle caviglie, con una carica tanto angosciante quanto erotica, un orgasmo che non sembra poi così fuori luogo, generato e fatto culminare in risposta ad una situazione dissonante dal punto di vista cognitivo però non direttamente minacciosa o dolorosa, ma anzi eccitante.

Voglio descrivere la scena ed è fondamentale, adesso, che si condivida una chiara rappresentazione della struttura architettonica in discussione, prima di tutto. Infatti, benché il principio e l'oggetto dello stridere fu propriamente un insieme di segni, di lettere, questo perderebbe di forza se strappato dalla componente ambientale del contesto in cui esso venne letto. Immaginate questo edificio, recentemente ristrutturato in stile moderno, dove moderno vuol quasi dire ingenuo o semplificato, un insieme di pareti bianche, pavimenti di gomma nera sottile e scolpita per risultare antiscivolo, infissi interni di laminato rosso, grandi trasparenti sia di vetro che di materiale plastico, scalinate fatte con profilati di metallo dipinti in blu elettrico. Il disegno di un bambino, al quale tra l'altro abbiano regalato solo la confezione di pastelli da sei, oppure l'opera di un architetto ben pagato che volle nascondere il bambino che era ed i suoi sei pastelli dietro una qualche corrente funzionalista o minimalista. Questi elementi servivano a formare un locale chiamato Polo Didattico composto da più piani (ne ricordo almeno tre. A pensarci ora, rimpiango di non averlo esplorato tutto, angolo per angolo. Chissà, forse lì avrei trovato altre risposte ad alcuni problemi che per me erano fondamentali al tempo, o almeno domande meno personali da pormi), suddivisi in modo da ricavare una generosa quantità di aule e sale per lo studio. Sono convinto, e lo deduco dalla posizione storica e topografica in cui è collocato nell'ambito cittadino, che il posto è tanto giovane per quel che riguarda il restauro quanto antico nella sua ossatura (non riesco a fare a meno, quando annoto questo e penso a ciò che vidi, a non pensare allo stereotipo cinematografico della casa costruita inconsapevolmente sopra un antico cimitero di una qualche cultura non più esistente). L'ambiente più sfruttato è il grande salone al piano terreno, fornito di tavoli e sedie per poter accogliere molti studenti. Il salone è infatti sempre pieno di gente, che trova riparo per studiare, mangiare e semplicemente discutere e conoscere persone così come da sempre è nei pressi di un'università. Nei piani più alti ci sono invece aule per lezioni di varie Facoltà, e una generosa quantità di gabinetti puliti e funzionali (e non si sottovaluti questa caratteristica, se avete passato un'ora di lezione a maturare un cagata che pare viva e parlante e le altre opzioni tra cui potete scegliere sono il cesso della vicina facoltà nel quale non volete fare l'errore di toccare qualunque cosa con qualsiasi parte del corpo, o la turca del bar di fronte, la cui porta a soffietto è punto medio tra la ceramica ed uno dei tanti tavolini per una distanza totale di due metri, cosa che mina la discrezione che vorreste usare in tali frangenti -vi rammento la natura parlante della cagata-). Il punto preciso, l'esatto luogo del quale vorrei riusciste a farvi un modello, è tra il salone ed il primo piano. Il salone parte dal piano terreno ma si sviluppa in altezza per un volume totale di due piani, ed infatti, oltre agli accessi dal basso, c'è un ulteriore collegamento che parte proprio dal primo piano. Dal centro di quest'ultimo, inizia una scalinata che taglia con un solco inclinato il pavimento ed il muro di fronte a sé, sbocca a metà altezza di una parete del salone è lì si dirama in altre due rampe opposte che si adagiano sul pavimento del piano terra. Dimenticavo di dirvi (e non avrebbe avuto senso andare avanti, allora) che il salone ha una denominazione, così come tutte le altre aule, indicato da una lettera, in accordo alle migliori tradizioni accademiche.

La sua è la H. Targa infissa sopra il muro frontale del primo piano che detta scala andava a trapassare, indicazione su dove portassero quei gradini.

Segue nel prossimo numero

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