Amarcord Barolo – Sesta Parte
Dal fascismo al metanolo. Il periodo nero del Barolo prima della rinascita
Durante il fascismo non vi furono iniziative particolari in campo vinicolo; nonostante le potenzialità enologiche e produttive del nostro paese tale settore venne molto trascurato e scarsi furono i contributi sia tecnici sia legislativi. Unica iniziativa degna di nota la si registra nel 1926 con il decreto legge sulla tutela dei cosiddetti “vini tipici”. Purtroppo la legge votata fu disattesa per alcune lacune tecniche ed il dibattito si protrasse fino al riconoscimento della Legge 1164 del 1930.
Sembrava che fosse finalmente superato il periodo delle incertezze e delle divergenze. Infatti un primo gruppo di vini pregiati italiani parve trovare realmente la sua tutela in detta legge, come quelli che furono emessi per altri vini pregiati italiani).
Ma anche tale iniziativa restò lettera morta, in quanto la legge del 1930 era minata da tali imperfezioni e lacune legislative da rendere praticamente vana la costituzione dei Consorzi di difesa dei singoli prodotti. Tra le tante carenze, la legge non aveva previsto l’obbligatorietà d’iscrizione ai Consorzi da parte dei produttori, né prevedeva l’applicazione di sanzioni per coloro che, non appartenendo al Consorzio, abusassero, nel commercio, del nome del vino tutelato.
Tant’è che Mussolini ci voleva primi alle olimpiadi ma non tra i bevitori.
Comunque nel 1933 venne fondato il “Consorzio per la per la difesa dei vini tipici Barolo e Barbaresco”, il quale ebbe inizialmente un raggio d’azione molto limitato e dovette interrompere le proprie attività durante il secondo conflitto mondiale per poi riprenderle nel 1944.
Un passo in avanti importante contro le contraffazioni avvenne nel 1963 con l’avvento del disciplinare “Denominazione di origine controllata”; il Consorzio avviò le pratiche per poter usufruire di tale marchio e lo ottenne nel 1966.
Con l’avvento di tale disciplinare ciascun produttore doveva denunciare a fine vendemmia la propria produzione per ottenere i “bollini doc”, ovvero i certificati comunali attestanti l’effettiva produzione di un vino tipico. Questi certificati vengono consegnati alla camera di commercio presso la quale è depositato l’Albo Vigneti. Si pensi che il consorzio aveva calcolato che negli anni ‘60 e ’70 il Barolo presente sul mercato era il doppio di quello realmente prodotto nel “Paese del Barolo”.
Il percorso intrapreso venne ultimato con l’avvento nel 1980 del disciplinare “Denominazione di origine controllata e garantita”: oltre al procedimento previsto dal Doc, ogni partita di vino deve essere controllata prima dell’imbottigliamento.
Nel 1986 l’Italia, e specialmente il Piemonte nelle zone limitrofe alle Langhe, da uno scandalo che colpì molto l’opinione pubblica, in quanto ci furone dei morti e perché riguardava il campo alimentare, argomento che tocca in maniera molto sensibile la maggior parte degli italiani.
Mi tocca precisare che tale episodio non toccò direttamente il Barolo, considerato che questo micromondo ne è rimasto al di fuori. Ma tale episodio condizionò tutto il mondo del vino e del Barolo in particolar modo, come d’altronde tanti altri vini piemontesi, in quanto uno dei palcoscenici di questo triste spettacolo è stato, appunto, il Piemonte.
Uno spettacolo che ha avuto non pochi retroscena come si è in seguito appurato, come forti interferenze politiche.
Infatti pochi mesi prima che si verificassero alcuni decessi a Milano per disturbi al fegato, in concomitanza a valori eccessivi di alcool metilico, lo stato aveva abbassato in maniera sensibili le tasse su questa sostanza, manovra grazie al quale era possibile produrre vino a bassissimo costo, per andare in seguito a battere cassa alla comunità europea chiedendo la distillazione di crisi.
Presentando ingenti quantità di vino prodotto a costi irrisori, sarebbe stato un buon affare per molti, non fosse che questo vino è uscito dal circuito destinato alla distillazione di crisi finendo sugli scaffali e causando i decessi che hanno dato via ad una inchiesta che ha assunto in determinati momenti la connotazione di una vera e propria caccia alle streghe, scatenando il terrore tra molti produttori che probabilmente avevano qualche scheletro nell’armadio o che hanno avuto la “colpa” di comprare vino sfuso per effettuare i tagli dalla Puglia, altra regione attrice protagonista di questa vicenda.
Non per niente all’epoca girava voce che le acque del Tanaro fossero diventate rosse, in seguito a numerose “fughe di prove”.
Seguì un periodo in cui l’opinione pubblica, molto colpita da tale accaduto, andava al ristorante portandosi il vino da casa.
Ma come tutti gli shock, anche questo ebbe una fine (e per fortuna!), e la clientela del vino, ritornando a comprare vino, inizio a guardare con sempre più attenzione la serietà dei produttori e l’effettiva qualità dei prodotti .
Si può quasi affermare, che l’ascesa ed il boom che “colpì” il Barolo verso la fine degli anni ’80 ebbe come primo impulso un classico scandalo all’italiana.