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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 9 - 16 Gennaio 2007 | 0 commenti

Un postulato impostulabile

Qual'è il principio fondamentale che sottostà alle argomentazioni contrarie alla pratica di eutanasia? Qual'è il presupposto teologico-filosofico attorno al quale ruotano i ragionamenti che negano il diritto a morire, anche nel caso di una persona con facoltà di intendere e di volere che nutra il desiderio di porre fine alle proprie sofferenze? L'indisponibilità a se stessi della propria vita e cioè il fatto che ognuno di noi non si appartiene. «Tu non appartieni a te stesso». Recita il postulato. «La tua vita non è tua». «Tu non sei tuo».

Nessuno è padrone della propria vita. Ma allora la vita non è propria. La tua vita non è tua, ma allora perché ci ostiniamo a dire «la mia vita»? D'ora in poi dovremmo dire: «questa vita». Sì, questa cosa che sta lì e che non si sa bene di chi sia, dal momento in cui nessuno può affermare con certezza o anche soltanto ipotizzare con ragionevolezza a chi appartenga questa vita una volta affermato così categoricamente che non è mia.

Se non sono padrone di me come posso essere responsabile di ciò faccio? Come posso essere responsabile delle azioni compiute in una vita non mia? Io sono la mia vita, ma allora forse che io non sono mio? O forse che io non è mio? Come può la mia vita non essere mia? La cosa risulta a dir poco paradossale e contro il linguaggio stesso. Certo, potremmo parecchio dilungarci su quanto il paradosso caratterizzi la sacralità e la religiosità, ma possiamo noi permetterci di fondare il diritto sul paradosso religioso e allo stesso tempo preservare quei principi liberali che tanto andiamo sbandierando?

Siamo così certi dell'esistenza di Dio come proprietario delle nostre vite da fondare non solo l'etica ma anche le leggi sulla sua presunta volontà che qualcuno con molta poca modestia pretende di conoscere? La ragionevolezza del pensare che ognuno abbia la facoltà di poter decidere cosa fare di se stesso mi sembra indiscutibile. O forse il codice penale deve tenere in considerazione che troppe anime possano andare all'inferno? E se anche così fosse, dobbiamo evitare l'inferno per legge o per fede religiosa? Diritto, morale e fede sono ambiti distinti. Tante leggi liberali prescindono dalla morale in quanto assegnano all'individuo una maggior libertà e tante morali vanno contro le leggi. Per non parlare poi del fatto che nel caso del postulato evidenziato si pretende di creare un ponte tra teologia, morale e diritto. Qui abbiamo addirittura un triplo salto mortale. Kierkegaard spiegava come morale e religiosità siano tra loro profondamente diverse e spesso anche in rapporto contraddittorio; figuriamoci religiosità e diritto.

La morale, nello stato moderno, è un fatto privato e tale deve rimanere se i principi liberali hanno qualche barlume di sensatezza. Lasciamo a Dio il compito del giudizio universale, ma per quanto riguarda il giudizio relativo e, precisamente, relativo a questo mondo, credo proprio che dovremo cavarcela da soli. Possiamo noi forse sapere quale sia il modo migliore per rendere la volontà divina effettiva tramite le leggi? Anche se fosse lontanamente giusto a livello sociale (cosa di cui dubito fortemente dato che il pluralismo dei valori è un fatto) sarebbe impossibile epistemologicamente. Quindi non ha nemmeno senso provarci.

Nell'assumere necessariamente l'orientamento teleologico al bene e alla sensatezza della natura e della vita, questa sorta di idealismo teologico-filosofico, che ritiene postulabile il postulato in questione, si rifiuta, con scarsità di coraggio, di guardare in faccia il fatto che vi siano casi estremi in cui la morte è un bene e la vita un male.

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