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Scritto da nel La Cantina del Viaggiatore, Numero 11 - 16 Febbraio 2007 | 0 commenti

“All'improvviso uno sconosciuto”

“Scusi, posso vedere la carta degli olii”,”Vorrei un Leccino del 95” sono frasi che qui nella cantina non si sente spesso dire.

Pensiamo a noi stessi e quando mai abbiamo pronunciato una frase del genere.

Eppure l’olio, è un alimento essenziale della nostra alimentazione. Non dico un orgoglio nazionale, ma comunque noi italiani abbiamo la presunzione di saperla molto lunga.

Invece capita molto di frequente di sentir parlare di frodi, di aziende anche importanti, di extravergini “che non aspettano il matrimonio” o addirittura di oli d’oliva tagliati con altri oli; chissà quante volte siamo stati vittime inconsapevoli.

Facciamo un esperimento: se vi dico nomi come Moraiolo, Frantoio, Leccino, Coratina, Bosana, Taggiasca, cosa vi viene in mente?

Considerato il tema dell’articolo ovvio che si parli di tipologie o, meglio, cultivar di olive. Ma sapete dirmi indicativamente di quale zona sono originari? Eppure se si vi dicessi Sangiovese, Falanghina, Nebbiolo, Cannonau o Nero d’Avola non troverei nessuno impreparato.

E pensate quante volte avete fatto, non dico una follia, ma un piccolo investimento per una bottiglia di vino e quante per una bottiglia (o una damigiana) di olio?

Eppure la bottiglia di vino generalmente dura uno o poco più pasti, mentre l’olio ha vita più lunga e mille impieghi in cucina

L’obiettivo di questo, lungo, preambolo non è sicuramente quello di mettere in cattiva luce il nettare degli dei o di metterlo in secondo piano rispetto all’olio (GIAMMAI), ma di rendere il giusto merito ad un compagno fedele di mille battaglie (con ferite varie sulle magliette).

È ovvio che si devono rivedere le politiche di promozione del secondo paese al mondo dopo la Spagna per produzione ed il primo per varietà di cultivar al mondo: oltre 250.

Mercato che da segnali di turbolenza: se da un lato si registra la forte crescita della domanda, specialmente in paesi caratterizzati da abitudini culinarie differenti come Regno Unito, Stati Uniti, Germania e Giappone dall’altro si deve segnalare la crescita di stati produttori emergenti.

Da segnalare? Per la serie “ma non ci eravamo già incontrati” il Cile. Come nel vino, anche nel campo dell’olio il Cile sta facendo passi da gigante, ma con una sostanziale differenza: se nel vino la politica è di immettere nel mercato vini dal conveniente rapporto qualità prezzo, la caratteristica principale dell’olio cileno è l’alta qualità.

La risposta italiana a Cile e Spagna sembra essere quella dei monocultivar, l’equivalente dei monovitigno del vino.

Strada indicata già tempo addietro da Veronelli, sembra oggi essere, sia per motivazioni qualitative e produttive che di esigenze di marketing, la via maestra.

Afferma Gino Celletti sulle pagine del Gambero Rosso: “…la monovarietà è l’essenza stessa dell’olio, e il blend (volgarmente "misto") una sorta di imbarbarimento”[1]. Fino ad adesso posizioni più che altro “teologiche”, decisamente più interessante la seguente affermazione:”Rispetto alla Spagna le nostre terre sono più difficili, in collina non si può raccogliere con le macchine. I nostri oli sono inevitabilmente più costosi, tanto vale allora puntare sulla qualità massima, e cioè sul monocultivar. È come vendere Ferrari, visto che la 500 ormai ce l’hanno tutti”[2].

Opinione che può essere più che condivisibile, ma vi sono da fare più osservazioni a questa affermazioni.

La prima è che spesso gli Oliveti sono dei blend naturali, ovvero che si possono trovare diversi cultivar uno a fianco dell’altro.

Inoltre “…i raccoglitori dovrebbero essere agronomi, per poter riconoscere le piante da cui raccogliere”[3] come afferma Giulio Scatolini, presidente A.PR.OL. Coldiretti di Perugina il quale è dell’idea che l’unica strada da seguire è quella delle Dop e Igp, per affermare il legame con il territorio “…altrimenti si corre il rischio dei vitigni internazionali: spesso si chiede uno Chardonnay, ma poi che sia fatto in Francia, Italia o California poco importa”[4].

Lasciando ad altri posizioni di parte, estremiste o faziose (ho già il mio bel daffare nel mondo del vino) si può tranquillamente affermare che l’importante è produrre olio di qualità e che blend o monocultivar possono tranquillamente coesistere in quanto generalmente (non prendete questa affermazione come “Olio colato”) più adatti per cucinare i primi, migliori per accompagnare o esaltare i sapori i secondi.



[1] Gambero Rosso di febbraio

[2] Ibidem

[3] Ibidem

[4] Ibidem

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