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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 10 - 1 Febbraio 2007 | 0 commenti

Appunti sull'antropocentrismo

Non è un fatto nuovo che la specie umana si autoponga al centro dell'universo considerandosi la principale beneficiaria del creato; già nel V secolo a.C, la concezione presocratica ed in particolare Protagora, tendevano a considerare l'uomo come misura di tutte le cose.

Questa concezione antropocentrica trova una prima ragion d'essere di natura psicologica ed empirica nella persona dell'osservatore, che in quanto tale, è naturalmente portato ad accrescere soggettivamente la sua infima importanza nell'economia del tutto.

I colori, come i ritmi lenti delle stagioni o il tepore solare, sono stati creati o si sono determinati, perché qualcuno li osservi, ne goda o comunque ne subisca gli effetti vivendo, questo è il pensiero dominate che si agita nella mente del piccolo uomo.

Siamo portati, per nascondere la nostra piccolezza infinitesimale, a voler dare un senso a ciò che potrebbe anche non averlo, ed in questo esercizio ci poniamo come gli usufruttuari privilegiati del significato ultimo che andiamo cercando. Com' è del tutto normale, la religione, mai come in questo caso oppio del popolo, ha funzionato per secoli come una lente trasfigurante avvallando incondizionatamente la rincuorante novella antropocentrica: aveva un bel da sussurrare il povero Galileo all'orecchio del cardinale Bellarmino, il sole avrebbe continuato a girare intorno alla terra, garantendo a quest'ultima la solita posizione di preminenza al centro dell'universo.

Nonostante il progresso scientifico ed un certo affrancamento dalle paludi metafisiche, abbiano evidenziato come la durata della vita umana in tempi cosmici possa essere misurata in nanosecondi, l'uomo ha continuato imperterrito a considerare la Mise en scène planetaria, che si ripete noncurante da milioni di anni, una sorta di teatrino a suo uso e consumo, in cui è ad un tempo regista, attore e pubblico pagante.

A voler provocatoriamente invertire la prospettiva, sarebbe utile considerare, ad esempio, come l'uomo e la vita in generale, lungi dall'essere il centro di alcunché, se non di se stessa, potrebbero essere un errore, un escrescenza, o un complesso di cellule impazzite.[1]

Per quale motivo il telos non potrebbe indirizzarsi alle migliaia di anni che occorrono ad un cristallo per formare il mirabile reticolo geometrico che lo determina in modo sostanziale?

Se richiamarsi all'autorità degli antichi, che consideravano l'immobilità un attributo della perfezione è un esercizio del tutto inutile, giova tuttavia ricordare come ancora oggi svariate filosofie e religioni (il buddismo su tutte) considerino l'azione un male in sé a scapito dell'atarassia, la quiete di un anelato nulla. Per alcuni l'umanità potrebbe dunque rappresentare un passeggero incidente di percorso, almeno nell'economia millenaria che scandisce il lento fluire delle ere geologiche.

L' antropocentrismo di matrice religiosa, così come il suo alter-ego di stampo scientista, possono coerentemente essere liquidate come risposte infondate a domande mal poste; infatti, nonostante le due concezioni poggino su prospettive radicalmente divergenti, si arrogano entrambe la facoltà di scandagliare un ambito che ontologicamente travalica i limiti conoscitivi della ragione umana.

Di certo, volendo tentare un'ipotesi ragionando per analogia, e tralasciando per una volta l'ego smisurato che accomuna la nostra specie, resta da considerare come l'umanità abbia formalmente e sostanzialmente la parvenza e l'aggressività tumorale di uno sciame di cellule impazzite, che nutrendosi ed ampliandosi, arrecano danno all'organismo che le ospita.

Tale visione, pessimistica e coraggiosa, è ad appannaggio di chiunque sia disposto ad autoritrarsi con le dovute proporzioni dinnanzi a quanto lo sovrasta enormemente: non è più tempo di favole, e Gea madre infuriata ed incurante, ha iniziato a presentare il suo salatissimo conto.


[1] M.Fini Il ribelle,p.26

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