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Scritto da nel Numero 10 - 1 Febbraio 2007, Scienza | 0 commenti

“Scatti” di follia

“Noi non volevamo fotografare la malattia, ma le condizioni nelle quali il malato di mente era costretto a vivere. Se avessimo fotografato la malattia, tutto sommato avremmo fatto una violenza al malato e non lo avremmo aiutato.”

Aiutato a fare cosa? Se potessimo rivolgere questa semplice domanda a Gianni Berengo Gardin, probabilmente egli ci risponderebbe che le sue fotografie avrebbero aiutato i malati di mente a liberarsi dall'indifferenza di una società che li aveva catalogati, archiviati, esclusi. E che per farlo li aveva imprigionati in un luogo a cui aveva dato un nome e una dignità per troppo tempo. Bisognava far conoscere a tutti quale fosse la realtà di quella soluzione troppo semplice, mostrando gli internati non più secondo gli stereotipi del malato, ma per quello che essi effettivamente erano: persone deturpate della propria umanità.

Tutto questo è Morire di classe, il libro di immagini che Carla Cerati realizza nel 1969 insieme a Gianni Berengo Gardin. Quelli dei due fotografi sono i primi scatti che riescono a fuoriuscire da un manicomio. Prima della loro esperienza l'ingresso nei manicomi italiani era infatti vietato ai fotografi, perché si riteneva che ritrarre i malati fosse lesivo della loro dignità.

Come è stato possibile allora riuscire ad entrare? Semplicemente perché è il direttore in persona ad aprire loro le porte. Si chiama Franco Basaglia e il manicomio è quello di Gorizia. Psichiatra di fama internazionale, egli è il vero fulcro della rivoluzione che nel giro di dieci anni porterà alla legge 180, quella della chiusura dei manicomi che passerà alla storia proprio come legge Basaglia. E' stato lui a chiamare i due fotografi e sarà lui a guidarli all'interno della struttura.

I due si rendono conto subito che le donne e gli uomini che puntano gli occhi nei lori obiettivi non rappresentano un'umanità alienata, ma emarginata. Per questo le loro foto diventano ben presto “coscienti e partecipati documenti di lotta, veri e propri strumenti di mobilitazione.” La condizione del malato mentale diventa così un simbolo tangibile dell'oppressione che un'istituzione esercita nei confronti di una precisa classe sociale. Quella dei matti.

Basaglia è consapevole del fatto che i suoi due “ospiti” siano socialmente impegnati. Sa perfettamente che per loro demonizzare il manicomio rappresenta una potentissima metafora politica e sociale. Anch'egli, del resto, è figlio della cultura di deistituzionalizzazione che domina i tempi. Ma in lui c'è molto di più.

Egli è fermamente convinto che la miccia della contestazione che si intende far esplodere debba accendersi all'interno del manicomio e coinvolgere tutti coloro che abitano quelle mura, siano essi malati, medici o infermieri. Nei manicomi la gente trascorre il proprio tempo nell'abbandono, nella noia e nella violenza. Fatti indiscutibili che testimoniano il distacco abissale con la teoria cui fa riferimento la psichiatria.

La libera comunicazione che Basaglia inaugura all'interno del manicomio di Gorizia è pertanto una risposta alla crisi della “sua” scienza. Contro essa e contro il manicomio che ne è espressione si deve lottare collettivamente. Per Basaglia gli internati sono anche i medici, gli psichiatri e gli infermieri. In un certo senso è come se la vera “classe sociale” da abbattere sia quella formata da tutti coloro che “vivono” il manicomio.

Le foto di Morire di classe non sono allora soltanto il racconto della distruzione di un immaginario collettivo, fondamentale per il reinserimento di una comunità esclusa, ma rappresentano a tutti gli effetti la sovversione di un ordine scientifico. Mostrando la miseria dei suoi metodi, i fotografi del cosiddetto nuovo sguardo oggettivano l'incapacità della psichiatria positivista di far rientrare entro le categorie mediche tutta la complessità dell'esperienza umana alienata. In questo senso la fotografia incarna davvero una forma di comunicazione in grado di parlare ad una società della quale ha contribuito ad allargare i confini.

A distanza di vent'anni dalla chiusura dei manicomi, ritornano di continuo nel nostro immaginario le sembianze di mostruosità che accompagnano, suo malgrado, la follia. Come rappresentare allora la condizione della malattia? E' realmente possibile costruire un immaginario che non ceda al sensazionalismo, ma racconti comunque l'eccezionalità di esperienze di vita senza ricadere nella stigmatizzazione del malato? Non esistono, oggi, risposte definitive. Anche se ormai sembra chiaro che un'informazione responsabile della salute, non solo quella mentale, ruoti attorno alla rischiosa soluzione di queste istanze.

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