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Scritto da nel Numero 15 - 16 Aprile 2007, Scienza | 0 commenti

La figlia illegittima – prima parte

a Marco

Immaginate di essere un chimico. Vi occupate di reazioni nucleari che avvengono a basse energie. Il nome potrebbe incutervi timore ma in realtà il vostro apparato sperimentale è relativamente semplice: vi basta immergere due elettrodi, uno di palladio e l'altro di platino, in una cella elettrolitica contenente una soluzione a base di deuterio. Fornendo energia elettrica create una corrente all'interno della soluzione elettrolitica. Questo, in realtà, lo avete imparato nei primi anni di università. Quello che invece ancora non avete capito è come sfruttare al massimo le proprietà del palladio: a che temperatura va mantenuta la soluzione, quale deve essere la sua concentrazione salina e a che pressione deve avvenire la reazione?

La risposta a queste domande è tutt'altro che scontata, anche perché non avete modelli teorici di riferimento che vi consentano di fare previsioni. Il motivo è che non esistono. La vostra è veramente ricerca di frontiera e in tutto il pianeta ci sono al massimo due o tre gruppi che si occupano di argomenti analoghi al vostro. In fondo è questo quello che vi piace, e l'idea di essere i primi a realizzare la fusione nucleare a “temperatura ambiente” vi dà la forza di superare anche tutti quei momenti di sconforto nel quale vorreste piantare tutto. Perché la verità è che non riuscite ad ottenere alcun risultato e state procedendo davvero per tentativi. Siete realisti, e sciocco sarebbe nasconderselo.

Ma una mattina accade qualcosa di diverso. All'inizio non capite e credete di aver commesso qualche errore. Quello che si fa in questi casi è accertarsi che gli strumenti siano a posto e i parametri settati proprio quelli richiesti. E' tutto in ordine, il vostro apparato sperimentale funziona a meraviglia e quella che state misurando è proprio un'eccedenza di calore. Allora vi precipitate dai vostri colleghi, perché non volete correre il rischio di vedere una cosa che non esiste solo perché vi avete lavorato tanto duramente. E invece sembra proprio che non stiate sognando: quello che avete davanti agl'occhi è un specie di “bicchiere d'acqua” che sta sprigionando energia. Vi annotate tutto: temperatura, concentrazione, pressione, corrente, tempi. E' difficile contenere la gioia, ma si deve cercare di restare calmi: l'esperimento va ripetuto al più presto perché le vostre ipotesi hanno bisogno di conferme precise. La ripetibilità di un fenomeno è un valore fondamentale del “fare” scienza. Questo lo sapete benissimo. Vi è impossibile, tuttavia, non pensare a tutti quelli che da almeno due anni vi ridono dietro le spalle, perché pensano che state cercando di fotografare Dio puntando una macchina fotografica a caso! Avevate ragione voi e presto lo sapranno tutti!

State pensando ancora a loro quando nel pomeriggio di quella storica giornata vi apprestate a ripetere l'esperimento: stessa temperatura, soluzione, pressione, corrente del mattino. Ma stavolta niente. Come era accaduto migliaia di altre volte. Correte a controllare che tutto sia a posto, e proprio come qualche ora prima tutto è in ordine. Tutto tranne la cosa più importante: il risultato. Eppure siete stati così attenti a ripetere le stesse identiche azioni della mattinata. Vi rendete conto che esiste un parametro che non conoscete o che avete trascurato. Non sembrerebbe esserci altra spiegazione. In ogni caso non vi fate prendere dal disfattismo: il risultato ottenuto durante l'esperimento del mattino è straordinario e deve essere pubblicato. Scrivete un articolo nel quale parlate dell'apparato sperimentale utilizzato, spiegate l'importanza delle variabili in gioco, discutete criticamente i risultati ottenuti prospettando ulteriori sviluppi. In sostanza spiegate come avete fatto ad ottenere quello che avete ottenuto. E dato che non siete degli ingenui, non vi siete soffermati troppo su ogni minimo dettaglio: dietro l'angolo potrebbe esserci la possibilità di depositare un brevetto ed è giusto che ci sia scritto su il vostro nome.

Due mesi dopo il vostro articolo esce sulla più importante rivista del settore e all'improvviso ci sono molti occhi puntati su di voi. Entro la fine dell'estate l'università nella quale lavorate ottiene due anni di finanziamenti e potete proseguire le vostre ricerche. Passano altri due mesi, e su una rivista diversa da quella su cui avete pubblicato esce un articolo di un gruppo di ricercatori che sembrerebbe aver ottenuto risultati simili ai vostri. Seguono altri quattro lavori di altrettanti gruppi. Questi ultimi, tuttavia, non presentano nessun risultato significativo e si concentrano sulle proprietà del metallo impiegato per il catodo.

A distanza di sei mesi dalla vostra prima pubblicazione non si è andati troppo lontano. In realtà il vostro entusiasmo è cominciato e finito proprio quella mattina. Il problema non è migliorarsi. Ma ripetersi. Il vostro bicchiere magico sembra non volerne più sapere di sprigionare energia. E proprio come il vostro, sembra non riesca a farlo neppure quello dell'unico gruppo che all'inizio aveva imboccato la vostra strada.

Dopo due anni di continui fallimenti, l'università non vi rinnova i finanziamenti e siete costretti a cambiare rotta. Poteva andare diversamente, ma è andata così. La vostra è la storia di una delle tante ricerche che non ce l'hanno fatta. In fondo non è un problema: la scienza è costellata di fallimenti. Forse siete stati soltanto sfortunati. Sta di fatto che a distanza di vent'anni nessuno si ricorda il vostro nome e il sogno di una “fusione fredda” è definitivamente tramontato. Il motivo è semplice: non ci lavora più nessuno.

Tutto questo è esattamente quello che sarebbe potuto accadere, ma non è accaduto, a Martin Fleischman, Stanley Pons e alla cosiddetta cold fusion.

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