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Scritto da nel Internazionale, Numero 19 - 16 Giugno 2007 | 0 commenti

Oltre il Trattato costituzionale europeo

Parafrasando liberamente un famoso detto nietzschiano, nelle dinamiche della storia dell'integrazione europea esistono ben pochi fatti, bensì piuttosto interpretazioni. Quali che siano gli esiti del Consiglio Europeo del 21 e 22 giugno, deputato dalla Presidenza tedesca a rilanciare il progetto di Trattato costituzionale dell'Unione Europea in forma anche semplificata[1], non si può fare a meno di interrogarsi sulla consistenza del progetto di unificazione europea. A che pro tutto questo sforzo? Soprattutto, basterebbe un eventuale accordo sulla forma giuridica della Costituzione per riempire il vuoto politico che circonda la Carta e la Comunità nel suo complesso?

Il nuovo Trattato – così come elaborato nel 2003 dalla Convenzione europea – sostituirebbe l'attuale composita struttura giuridica dell'UE, unificandola in un solo testo di riferimento con sommo valore costituzionale; ne riformerebbe l'assetto istituzionale e politico, per esempio stabilendo esplicitamente la primazia del diritto comunitario su quello nazionale, creando nuove figure istituzionali – in particolare quella di Ministro degli Esteri dell'UE – e ridefinendo i poteri di quelle esistenti; infine, aggiornerebbe le procedure decisionali alla nuova configurazione a 27 Stati, modificando il sistema di voto in Consiglio. I nodi scoperti sono tanti e nascondono profonde fratture tra le idee degli Stati membri riguardo al futuro dell'UE.

Innanzitutto, la parola Costituzione – al posto del semplice Trattato – conferisce al documento un significato politico molto forte, che presuppone un ulteriore ritiro della sovranità dei governi nazionali a favore della comune appartenenza comunitaria. Un impegno solenne che diversi leader non possono o non vogliono assumersi, soprattutto dopo le bocciature referendarie in Francia e Olanda.

A questo è legata a doppio filo, naturalmente, la questione delle maggiori competenze che l'UE otterrebbe, depotenziando gli Stati nello stabilire proprie soluzioni in delicati temi politici, come l'ambiente e l'energia, le politiche sociali, la politica estera e di sicurezza.

La riforma del sistema di voto appare, dal canto suo, lo scoglio più evidente: si scontrano qui le ambizioni degli Stati membri – soprattutto dei più popolosi – a pesare adeguatamente la propria voce nella presa delle decisioni comuni. Un negoziato estenuante produsse già nel 2001 a Nizza – quando le parti in causa erano ancora 15 – un equilibrio inadeguato alle sfide dell'allargamento: ora che i Paesi sono 27 l'accordo non sembra certo più semplice.

Un'ulteriore difficoltà di fondo è qui poi rappresentata dalla volontà e dalle preferenze dei leader dei maggiori Paesi: se ad Amsterdam nel 1997 l'asse di governi social-democratici (Blair, Jospin, Schröder, Prodi) aveva prodotto uno scatto in avanti in una direzione fortemente europeista, il quadro politico attuale è piuttosto composito ma più pendente dalla parte conservatrice (Sarkozy, Merkel, Kaczynski, Blair sulla difensiva), forse non euro-scettica di principio, sicuramente poco flessibile in quanto a predisposizione all'accordo.

Ma la leadership dei governi nasconde un punto ben più sostanziale: i singoli elettorati nazionali, i cittadini europei non sono convinti che l'Europa sia un'identità comune e che l'integrazione rappresenti un progetto politico capace di risolvere gli angoscianti problemi della contemporaneità e del futuro. In altre parole, cresce la forza delle interpretazioni del mondo che, con diverse motivazioni, da destra e da sinistra, vedono l'esistente sovranità statuale come il luogo naturale della politica. Dove la singola voce dei diversi interessi e gruppi sociali può trovare canali di ascolto e di imposizione più immediati. O che, comunque, ritengono l'EU un enorme carrozzone burocratico, incomprensibile cavallo di Troia dei “poteri forti” per introdurre riforme a proprio favore.

L'eventuale firma di una Costituzione tramite i più astuti ingegni e raffinatezze diplomatiche non cancellerebbe, purtroppo, il fatto che questa sarebbe un “contratto sociale” debole, accettato per procura e, in buona parte, controvoglia dalle popolazioni europee.

Per tanti addetti ai lavori, l'Unione Europea è una realtà da lungo tempo imprescindibile di fronte ai macro-stati che compongono il quadro mondiale (USA, Russia, Cina, India, Brasile…) e alla perdita di centralità economica e sociale dei singoli Paesi europei. L'UE rappresenta una fonte di tutele democratiche, di stabilità politica e risorse economiche disperatamente ovvia, benché perfettibile. Il nanismo non può veramente interessare a nessuno. Ma finché le istituzioni europee non si doteranno dei mezzi per essere riconosciute come il cuore di un progetto politico chiaramente identificabile, il centro del dibattito pubblico e il riferimento culturale per tutti i suoi cittadini, esse non assumeranno mai la legittimazione spirituale che ancora i popoli attribuiscono allo Stato o, ancora più pericolosamente da questo punto di vista, all'identificazione locale.

Non solo, dunque, fatti di tattiche negoziali e cavilli giuridici: anche, e forse soprattutto, interpretazioni politiche. Il Trattato costituzionale europeo rischia di rimanere ancora in alto mare.


[1] La proposta di mini-trattato da parte del gruppo di lavoro indipendente guidato da Giuliano Amato è disponibile alla pagina www.eui.eu

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