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Scritto da nel La Cantina del Viaggiatore, Numero 21 - 16 Luglio 2007 | 0 commenti

Il vino di Chio

Da quando il mondo è stato creato, o per lo meno pochi giorni dopo (il mercoledì e non se non parla più), la gente che ha popolato il mondo si è divisa in due grandi macrocategorie: chi ha le idee e chi le copia.

Le idee poi si sviluppano, crescono, si scambiano volentieri opinioni e pareri con parenti, amici e vicini di casa (che spesso un tempo erano gli stessi) e si creano i cosiddetti distretti industriali, che magari sono in verità agglomerati di artigiani e di industriale hanno ben poco.

Il campo enogastromico vede numerosi distretti industriali, i quali spesso fregiano di marchi che possano difenderli come le denominazioni: DOCG, DOC e IGT per i vini e DOP e IGP per i cibi le più famose e in uso in Italia.

I nostri vini, spesso prestigiosi, di grande qualità e fascino sono tra i più bersagliati dalle contraffazioni.

È luogo comune guardare ad oriente per le contraffazioni, Giappone storicamente e ora Cina, dimenticandosi che anche i cowboy a stelle e strisce fanno fortuna utilizzando nomi e marchi che ricordano anche lontanamente il Bel Paese spacciandoli per italici.

Ma si tratta di atteggiamenti già visti e che prima o poi vedono tutti protagonisti da una parte o l’altra della barricaia, popolazioni dello stivale compresi, che sempre si vedranno.

Non ci credete?

Permettetemi di raccontarvi una storiella.

Nell’antichità come oggi, esistevano i vini prelibati, quelli che allietavano i banchetti dei ricchi e che la facevano da padrone sui mercati più importanti dell’epoca, Marsiglia e in seguito Roma.

Erano molto in voga i vini di Lesbo, Samos, di Thaso e di Chio; si trattava di vini dolci e tutti altamente alcolici, unica garanzia per il trasporto in mare.

Ma il vino di Chio aveva delle caratteristiche che gli altri vini non avevano, tanto da renderlo paragonabile al Falerno, unici due vini offerti da Cesare al banchetto del suo terzo consolato.

In primis l’isola di Chio era l’unica su cui cresceva il terebinto, pianta da cui si ricavava un olio che serviva a impermeabilizzare le anfore e ricopriva anche un ruolo importante nella conservazione del vino.

Conservazione che era aiutata anche dalla presenza di sale nel vino, presenza dovuta ad una particolare pratica enologica che precedeva l’appassimento: le uve, chiuse in ceste, venivano immerse in mare per alcuni giorni con l’intento di levare la pruina dalla buccia per accelerare l’appassimento delle stesse una volta messe al sole.

Si otteneva così un vino che oltre ad essere prelibato risultava decisamente particolare, e gli abitanti di Chio ne erano così consapevoli da chiedere allo scultore Prassitele, famoso per essere stato il primo a raffigurare il nudo femminile in una statua, di ideare l’anfora nella quale conservare e trasportare il vino.

Anfora caratterizzata da una forma ovoidale e da un collo tozzo e bombato ma soprattutto da un timbro, una sorta di primordiale marchio o brand come si dice negli ambienti che contano, che vedeva raffigurata una sfinge.
Il mix di design e prodotto, forma e sostanza, funziona oggi come funzionava all’epoca, tanto da sbaragliare la concorrenza e stravolgere i mercati, nei quali primeggiavano i vini etruschi.

Il successo è confermato dai numerosi ritrovamenti di queste anfore ritrovamenti eccessivi considerato la quantità di vino che poteva produrre la piccola isola dell’egeo.

Ieri come oggi, si sviluppò un fenomeno di contraffazione di portata considerevole. Studi hanno mostrato come molte delle anfore ritrovate non fossero Chiesi, ma prevalentemente di un’altra zona del Mediterraneo. E chi erano questi contraffattori? Ma gli etruschi ovviamente.

L’isola d’Elba e Piombino erano porti molto importanti all’epoca grazie ai considerevoli giacimenti ferrosi, scali quasi obbligati se di ritorno da Marsiglia. Tappe forzate anche per i commercianti di Chio.

Inutile andare avanti con il racconto.

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