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Scritto da nel Bologna, Numero 23 - 1 Settembre 2007 | 0 commenti

Breve incontro con Mario Monicelli

E iniziata con la splendida voce di Felicia Bongiovanni la breve conferenza dal titolo “Monicelli: un uomo del futuro” tenutasi lunedì 27 agosto alla Festa dell'Unità. Il “Bel raggio lusinghier”, tratto dalla Semiramide di Gioachino Rossini è servito ad introdurre il più ampio tema dell'incontro, dedicato alla vita del compositore pesarese e ai suoi rapporti con la città di Bologna, al quale Monicelli ha preso parte in qualità di regista del film “Rossini! Rossini!”.

Il grande maestro del cinema italiano fa il suo ingresso in scarpe da ginnastica, jeans, maglietta bianca e occhiali scuri che lo riparano dalla luce dei riflettori. A vederlo da lontano sembra poco più che un simpatico vecchietto, se non fosse che nei suoi 92 anni di vita, vanta la produzione di 65 film, tra cui indimenticabili capolavori quali: I soliti ignoti, L'armata Brancaleone, La grande guerra, Compagni, Amici miei.

Monicelli all'inizio si confonde fra la folla dei partecipanti (Sara Pesce, Marco Beghelli, Luigi Ferrari), col suo fare semplice, il sorriso gentile, ma non appena apre bocca ruba la scena, il pubblico si incanta e segue ogni sua singola parola con attenzione quasi reverenziale. Il maestro parla di cinema, ciò che ama definire “un insieme d'immagini in movimento”, immagini che tentano di raccontare la storia, la vita, le emozioni di uomini e donne, e quando vi riescono hanno semplicemente esposto una singola visione dell'esistenza, quando falliscono, nient'altro che “sciocchezze”. Poi vi è il suo cinema, fatto di piccola gente, del loro tentativo di cambiare quella porzione di mondo che li circonda, dell'immancabile fallimento che è alla base di ogni epilogo e che tuttavia funge da esortazione a tentare, e tentare ancora. Anche quando racconta grandi vicende, Monicelli lo fa servendosi di uomini semplici, molto spesso perdenti; d'altronde la storia è fatta anche di questo, nani travestiti da giganti e giganti intrappolati in corpi di nani che aspettano ancora il proprio riscatto nella società contemporanea.

Parla di cinema ma anche del suo rapporto con Bologna, della prima volta che la conobbe ancora bambino, quando il padre dirigeva il Resto del Carlino, e di quando vi tornò nel 1940 arruolato dall'esercito fascista. Parla della Bologna del dopoguerra, animata da una forte spinta politica e culturale, e della Bologna di oggi in cui di quella “spinta” non rimane che qualche traccia. Ricorda, con fare nostalgico, di un momento in “cui si poteva fare un Italia meglio di quella che è, ma non l'abbiamo fatto perché ci è mancato un sostegno [...] lo potevamo fare con un'azione di forza, non l'abbiamo fatto perché abbiamo creduto in una scheda elettorale”. Poi, quando arriva il momento di salutare il suo pubblico, Monicelli lo fa col pugno alzato e la “targa ricordo di Paolo Volponi”, di cui è stato insignito durante l'incontro dall'Assessore alla Cultura Angelo Guglielmi, sottobraccio. Lui che ha cambiato la storia del nostro cinema, che ha indelebilmente segnato la commedia all'italiana e che non ama essere chiamato “maestro”, poiché dice: “maestro è colui che insegna ed io non ho nulla da insegnare”, si allontana tra la folla, scambiando qualche parola con chiunque gli rivolga una domanda (e anche noi dell'Arengo gliene abbiamo rivolta qualcuna!).

Monicelli però non dispensa autografi, perché “dell'autografo potete farne a meno”, e indubbiamente ha ragione, tutto ciò che ci serve continueremo a trovarlo nell'umana genialità che pervade le sue opere.

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