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Scritto da nel Numero 30 - 16 Dicembre 2007, Viaggi | 0 commenti

Un albero per aula – 4/10/2005 L'attesa

Il momento più bello di una tipica a giornata a Busia sono le due ore di attesa da Chauma, dopo averne trascorse una dozzina a lavoro. Sul serio. E' quasi come se si passasse un confine tra due paesi, dai ritmi intensi dell'ufficio all'inesistenza di qualsiasi fretta, seduti al tavolo. In questi mesi abbiamo sperimentato tutte le possibili tattiche per ridurre il tempo che separa il momento in cui ordiniamo il cibo da quello in cui il cibo si materializza: ordinare per telefono, lasciare qualcuno ad aspettare senza bere birre, ordinare direttamente al cuoco, chiedere un numero minore di pietanze e di facile preparazione, rinunciare alla carne (…). Le abbiamo provate tutte, ma, in fondo, io l'ho sempre fatto nella speranza che nessuna di queste funzionasse, che nessuna servisse a trasformare Chauma in un (relativamente parlando) fast food keniota.

E alla nostra domanda: “Habari ya chakula (a che punto é il cibo?)”, la risposta continuerà ad essere sempre la stessa “Iko karibu (quasi pronto)”…sia che manchino cinque minuti sia che si debba aspettare un'altra ora. E del resto per ammazzare il pollo, scuoiarlo e metterlo sulla brace ce ne vuole, e poi mica possiamo fare la parte dei wazungu lamentosi che vogliono essere serviti prima degli altri, no? Poi, certo, a volte capita di aspettare ancora di più perché magari Juma (il mio cameriere preferito, con la sua serietà e determinazione ogni volta che stappa una nuova bottiglia) ha dimenticato che avevamo ordinato. Il massimo è quando si ordinano solo patatine fritte per vederle arrivare dopo un'ora e mezza…fredde! Ma Chauma dà chiaramente dipendenza, e se non ci vado per due giorni di fila mi viene la nostalgia dell'Italia (e dei bar italiani).

Nel frattempo, mentre beviamo le Tusker dell'aperitivo, scambiamo due chiacchiere con gli altri avventori: qualcuno dell'ICS o di Medici senza Frontiere, il politico di turno, i poliziotti e i doganieri, gli ubriachi di passaggio che si meravigliano di trovarci al tavolo lì.

L'arrivo del cibo è una climax che comincia quando vengono portati piatti e posate, prosegue con il rito del lavaggio delle mani (in una bacinella con acqua versata da una brocca, a volte gelida, a volte bollente) e culmina nella deposizione delle pietanze sul tavolo. In genere tutto queste succede un attimo dopo che qualcuno di noi dice “La prossima volta che aspettiamo così tanto, dovremmo andarcene a cucinare a casa e cancellare l'ordine”. Più che altro una fase propiziatoria…

E allora stasera ci rimango secco quando arrivo da Chauma e scopro che un paio dei miei colleghi, dopo un'ora di attesa, hanno veramente deciso di andarsene, cancellando l'ordine. E mi viene da pensare che uno del posto una cosa del genere non la farebbe mai…vorrà dire che io ed Anthony ceneremo con le Tusker, stasera…o magari mangiando ugali peke yake: ugali senza nient'altro.

E poi succede che, dieci minuti dopo, due nuovi arrivi kenioti di Medici Senza Frontiere, mai visti fino a quel momento, vengano da noi e ci dicano “ragazzi, abbiamo ordinato troppa carne e siamo meno del previsto, vi va di aggiungervi a noi?”. Io quasi non ci credo – saranno i miraggi da fame – me la rido e penso alle strane coincidenze, che una cosa del genere capita solo una volta, nella serata migliore… e che non mi venga mai in mente di andarmene prima del tempo. Si mangia di lusso, si conosce nuova gente e poi si scopre anche che è tutto pagato (risparmio addirittura un euro e mezzo). Io non mi gustavo una cena così da secoli… poca cosa comunque rispetto agli occhi di Goose (il nostro gatto) quando ci vede arrivare con gli (insperati) avanzi.

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