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Scritto da nel Numero 32 - 1 Febbraio 2008, Viaggi | 0 commenti

Un albero per aula – 21/11/2005 Ma serve a qualcosa l'acqua pulita?

L'attesa davanti ai cancelli sembra interminabile, prima che Polycarp faccia un cenno con la mano per sancire l'apertura dei corsi di formazione. Sono i corsi che l'ICS tiene ai comitati di gestione delle sorgenti protette: uno degli interventi del Rural Water Project per migliorare l'accesso alle risorse idriche nelle aree rurali di Busia. All'entrata, un arcobaleno di colori e di età si riversa nelle aule, nettamente distinto dai grembiuli, tutti ugualmente rosa, dei giovani allievi della scuola.
Entro in una delle due aule dove una sessantina di persone stanno assistendo all'introduzione fatta da uno degli insegnanti. Sembra di essere alle elementari: tutti i maschi da un lato e le femmine (alcune con bambini in braccio) dall'altro, in una divisione quanto mai rigida. In realtà è così in tutte le occasioni di incontro pubblico: le donne in gruppo, sempre un passo più indietro degli uomini, mostrano un'iniziale timidezza; gli uomini fin dall'inizio fanno domande e commenti e mostrano il bisogno di sancire la loro leadership. Le donne nel frattempo ascoltano, prendono appunti e piano piano vengono fuori, consapevoli che tanto, poi, saranno loro a prendere l'acqua e ad aver cura delle sorgenti.

Il corso dura tre giorni. La mattina del primo è il momento dell'organizzazione, il più difficile.

Un momento cruciale è la scelta dei leader delle classi, ognuna delle quali ha un team leader, uno spiritual leader, un welfare leader e un time keeper. Forse è solo una mia sensazione, ma mi sembra che i ruoli siano già stati definiti, che esista una gerarchia ben precisa basata su elementi che a me non è dato comprendere. Alla domanda di Leonard “Chi vuole essere il leader?”, è quasi sempre una sola persona ad alzarsi, come se avesse già ricevuto un'investitura in pectore dalla comunità, che pure comprende persone provenienti da luoghi diversi.. Il ruolo più importante è senz'altro quello del time keeper che, all'inizio di ogni lezione, esige che l'insegnante scriva sulla lavagna orario d'inizio e di fine. E guai a sbagliare: anche qui l'intervallo è sacro e all'insegnante non sono concessi più di tre minuti di recupero.

Prima di iniziare con le lezioni vere e proprie c'è l'introduzione dei partecipanti. Tocca anche a me presentarmi. Alle ovazioni per qualche frase in Swahili e qualche parola in Luhya, seguono, in entrambe le classi, le stesse domande: “Sei sposato? Cerchi moglie?”

E poi si comincia, gli insegnanti coordinano le diverse sessioni. Gli argomenti sono vari, ma lo scopo è unico: far sì che i comitati di gestione, costituitisi quando è iniziato il programma di protezione delle sorgenti, funzionino per un lungo periodo, riuscendo a svolgere le attività richieste e, in caso di necessità, a raccogliere i fondi necessari per la manutenzione. Io mi seggo in una classe, defilato in un angolo, cercando di mimetizzarmi – occhi bassi o rivolti alla lavagna – in modo da non attirare troppo l'attenzione.

Gli insegnanti sono bravi, fanno parlare molto gli studenti, facendo sì che siano loro a porre le questioni che ritengono rilevanti.
I tanti volti finiscono inevitabilmente per confondersi, rimane solo qualche figura che si staglia, forse contorni reali, forse sintesi che racchiudono in sé elementi comuni a molte delle persone viste.

La vecchia maestra oggi è seduta in prima fila, solo un po' spostata sulla sinistra. È in pensione da 25-30 anni, perfettamente lucida, un'auctoritas della comunità. Molti devono sforzarsi per capire lo Swahili, nelle domande si rifugiano a volte nel Luhya, la lingua madre; lei parla in inglese davanti a tutti, mi fa i complimenti per il mio Swahili, in una conversazione a parti invertite, nella quale ognuno dei due parla nella lingua che crede appartenga all'altro, ma che in realtà è già il risultato di una traduzione interna: italiano, swahili, luhya, inglese… comunque la maestra l'inglese lo padroneggia bene e mi spiega che ci penserà lei a far sì che i soldi della comunità siano ben amministrati.

Il bambino comincia a zampettare verso la cattedra, la mamma fa in tempo a ritrarlo a sè. Il bambino sta un po' fermo poi ricomincia ad andarsene. E la mamma a riprenderlo. Il successivo tentativo di fuga ha successo, la mamma è intenta a prendere appunti e il bambino si accinge a scoprire la mia sedia e la lavagna. Tocca prenderlo in braccio e riaccompagnarlo alla giovane madre; ha più o meno la mia età e, a quel punto, è visibilmente imbarazzata per non aver adempito il doppio ruolo di studentessa e madre.

Tanti trascrivono i contenuti della lavagna utilizzando le penne e i quaderni distribuiti all'inizio del corso. Tra essi c'è un vecchio signore che non prende appunti (nell'aula ce ne sono tanti che a me sembrano ultracentenari); fissa il maestro, non so se ne scruti lo sguardo o lo oltrepassi, fissando il vuoto. Poi china il capo, pare che perda il filo, socchiude gli occhi; nasconde la faccia sotto il suo copricapo. Dopo un po' rialza la testa, sembra che ritrovi una fierezza accantonata per qualche minuto. Me lo immagino spaesato, eletto nel comitato di gestione per il rispetto che si deve agli anziani. Capace di dare consigli e di organizzare, ma fuori luogo in una classe. Alla fine della giornata, al momento di firmare la ricevuta per il rimborso dei soldi per il viaggio, mostra il polpastrello, da intingere nell'inchiostro prima di marcare l'apposita ricevuta (l'equivalente della croce dalle nostre parti).

Le giornate scorrono, tra lezioni e pausa pranzo, fino al momento in cui la luce si affievolisce e le aule, ovviamente senza elettricità, diventano troppo scure per proseguire. Resta il tempo solo per un ultimo tè accompagnato da noci tostate, che per molti è la cena.

La tre giorni termina con la cerimonia della consegna dei diplomi, che si svolge, gioiosa e quanto mai solenne, al tramonto, vicino al campo di calcio della scuola primaria che ci ospita. È il turno dei team leader, che ringraziano per l'organizzazione e riprendono le nostre parole del primo giorno “Abbiamo imparato tante cose ma non basta, ora andremo alle nostre case e metteremo in pratica queste conoscenze”.
Un altro passo verso la sospirata sostenibilità; o almeno, lo speriamo.

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