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Scritto da nel Internazionale, Numero 34 - 1 Marzo 2008 | 0 commenti

Il Kosovo indipendente?

Difficile non farsi contagiare dalla gioia irrefrenabile dei kosovari che il 17 febbraio hanno festeggiato l'indipendenza: a Bruxelles, come a Pristina, i festeggiamenti della comunità albanese sono durati ore. Gioia frutto del successo di un movimento indipendentista decennale, cominciato con la dottrina non-violenta di Rugova durante gli anni '80 e '90, e radicalizzatosi negli anni fino a provocare l'intervento militare serbo, come ultimo atto di un regime allora già in piena crisi di legittimità domestica. Una guerra sciagurata non solo per i massacri compiuti dalle truppe serbe, ma anche perché ha reso insanabile la rottura con la popolazione albanese.

Il Piano Athisaari dell'ONU definisce chiaramente l'indipendenza del Kosovo sotto supervisione internazionale come 'the only viable option' (non necessariamente giusta, quindi), viste le posizioni diametralmente opposte tra le parti: la Serbia non era disposta a concedere niente di più che un certo grado di autonomia alla Provincia, ferma restando la propria sovranità, le forze politiche kosovare non volevano niente di meno che l'indipendenza. Il risultato finale non risolve comunque la drammatica spaccatura tra le due comunità etniche, soprattutto nelle aree a nord del Kosovo popolate da una schiacciante maggioranza serba.

Ma i due stati non sono per nulla gli unici attori sulla scena. Anzi. Il peso della geopolitica sulla vicenda ne influenza potentemente gli esiti, e pone le relazioni tra Serbia e Kosovo in uno scacchiere ben più ampio e allarmante. Non da oggi i Balcani sono oggetto delle attenzioni e dei giochi tra le grandi potenze – Europa, Stati Uniti e Russia – e il processo di stabilizzazione della regione dopo l'implosione della Yugoslavia è stato fin da subito eterodiretto, ragion per cui il merito delle fratture etniche e dello sviluppo economico passa su un piano alla meglio strumentale per altri fini. Si tratta di capire cosa si muove.

La spartizione delle spoglie di un regime comunista sui generis come quello yugoslavo – mai stato allineato con l'Unione Sovietica – non può che interessare le due (ex) superpotenze della guerra fredda nella definizione postuma delle proprie zone d'influenza. Se la Russia tenta di mostrare la propria forza internazionale, forse prima a sé stessa che al mondo, sfruttando i tradizionali profondi legami con la Serbia ortodossa per difenderne strenuamente gli interessi, gli Stati Uniti vedono nei Balcani un ulteriore passo verso la conquista occidentale delle ex repubbliche russe, dopo gli Stati baltici e l'Est Europeo.

Alla luce della strategia di sicurezza americana, tuttavia, il Kosovo riveste oggi una valenza decisamente simbolica: gli Stati Uniti parteggiano per uno stato musulmano e sono pronti a mettere a rischio i rapporti con la Russia e la Cina per questo. Non a caso, i Paesi mediorientali sono stati tra i primi a riconoscere l'indipendenza del nuovo stato, in un'area del mondo in cui notoriamente si sono svolte le prove generali del movimento integralista islamico a difesa dei musulmani bosniaci durante la guerra in Bosnia. In questa chiave, la pressione statunitense per accontentare le richieste dei kosovari fa il paio con l'incessante sostegno per l'entrata della Turchia nell'Unione Europea. L'agenda politica è quella americana, segno dell'immutata autorità degli USA nel Vecchio Continente. E dell'incapacità degli stati europei di disegnare una propria leadership regionale.

L'UE avrà un ruolo di primo piano nella gestione del Kosovo. Ciò non vuol dire che sia interamente farina del suo sacco, date le fortissime riserve da parte di alcuni Paesi (dalla Spagna a Cipro, passando per Romania e Grecia) sull'indipendenza. Se è vero che l'UE è già attivamente presente in tutti gli Stati balcanici, alcuni di loro già da alcuni anni sulla strada verso la membership nell'Unione, una vera e propria strategia regionale omnicomprensiva pare sfuggire: in parte per le forti divergenze interne, in parte per l'allineamento agli interessi della NATO (leggi: gli USA), che si sospetta abbia 'suggerito' i to-dos nella vicenda kosovara all'attuale presidenza slovena dell'UE.

Un'autonoma e forte strategia Europea avrebbe, invece, una serie di vantaggi. Prima di tutto nello strappare la Serbia da un isolamento politico che alimenta un nazionalismo già abbastanza pronunciato di natura e ferito nell'orgoglio. Il processo di attrazione del Paese nella sfera UE è grosso modo già iniziato, ma è una strada irta di contraddizioni. Secondo, i Balcani potrebbero guadagnarne in stabilità, se fossero stabilmente coinvolti in programmi di cooperazione regionale e mutua interdipendenza reciproca. Il progetto sopranazionale europeo non è stato altro che l'espressione di questo principio all'indomani della Seconda Guerra Mondiale. Terzo, i Balcani sono il banco di prova non tanto della politica estera comune tra gli Stati Europei quanto di quella interna: la crescente eterogeneità etnica degli Stati europei non può certo proporre modelli catastrofici come quelli balcanici per la convivenza tra culture e religioni diverse.

Separare due popoli dietro labili frontiere non significa integrarli. Invece, proprio l'integrazione è la sfida dell'Europa. Vale anche a livello internazionale. La realpolitik del confronto di forze farà il suo corso. Ma stiamo ben attenti a imparare dalla storia, soprattutto quando ci passa davanti agli occhi.

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