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Scritto da nel Internazionale, Numero 35 - 16 Marzo 2008 | 0 commenti

E' tempo per la Libia di cambiare

Il Colonnello Gheddafi, al potere in Libia dal 1969, ha anticipato nei giorni scorsi un ambizioso progetto di ristrutturazione del Paese, con drastici cambiamenti sia in politica estera che interna, il tutto allo scopo di “arricchire” il popolo libico.

Dal 2003 è stata portata avanti una serie di riforme da parte del regime di Tripoli, seguita da un'apertura all'Occidente: dalla rinuncia alle armi di distruzione di massa, al caso delle infermiere bulgare, facilitando la rimozione di alcune sanzioni internazionali; in questo modo

la Libia è passato da stato canaglia a potenziale partner per l'Europa e gli USA.

Al centro delle riforme c'è ovviamente il petrolio, la prima risorsa del paese: le attività legate all'oro nero rappresentano il 72% del PIL, il 95% dell'export e il 93% delle entrate di bilancio[1]. Fino ad oggi la re-distribuzione tra la popolazione dei proventi petroliferi è stata destinata prevalentemente verso il settore pubblico, con assunzioni di massa, alimentando la gigantesca ed inefficiente burocrazia su cui si basa

la Jamahirya. Tutto ciò a scapito del settore privato, prevalentemente in mano ad aziende straniere che si occupano dello sviluppo delle infrastrutture. Inoltre, le sciagurate iniziative in politica estera del Colonnello, alla ricerca di un'affermazione come condottiero e leader ideologico dell'Africa e dell'Islam moderato, hanno portato ad un'inutile dissipazione di risorse senza conseguire vantaggi significativi in ambito internazionale.

Le riforme saranno quindi all'insegna di più giustizia e più efficienza: le entrate del petrolio saranno divise equamente famiglia per famiglia (bisognerà vedere in che modo), tagli a ministeri e pubblica amministrazione allo scopo di eliminare gli sprechi della burocrazia e soprattutto la corruzione, ma anche cambiamenti nei sistemi di democrazia diretta tipica della repubblica socialista, con la riforma dei Comitati Popolari.

Il petrolio rappresenta un'innegabile ricchezza per

la Libia , il reddito pro capite è di 13.100$[2], il più alto di tutta l'Africa, ma è allo stesso tempo una condanna che ha limitato la diversificazione dei settori produttivi. L'arretratezza dei settori non legati al petrolio è riconducibile allo scarso sviluppo tecnologico causato dalla totale assenza di investimenti negli anni precedenti e ad una mancanza cronica di know-how derivante dall'embargo.

L'eccessiva presenza dello Stato nel settore economico ha generato un imponente sistema burocratico ricco di sprechi; è però evidente la volontà di cambiare con un graduale ritiro dell'apparato statale dalle attività economiche: emblematica la recente privatizzazione della Sahara Bank, tra i più importanti istituti di credito del paese, il cui 19% del pacchetto azionario è passato alla francese BNP Parisbas, con l'opzione di accaparrarsi fino al 51%.

Il ridimensionamento della struttura burocratica potrebbe però rappresentare una lama a doppio taglio: da un lato ridurre gli sprechi, dall'altro comporterebbe il licenziamento di 400mila impiegati pubblici; con un tasso di disoccupazione al 30%(2004)[3], l'iniziativa, inevitabile, si presenta assai rischiosa. E lo è ancora di più se si considera che nella zona di Bengasi e della Libia orientale, roccaforte dell'opposizione di ispirazione islamica, la disoccupazione supera il 30%: una regione, quindi, che ha fortemente bisogno di iniziative che contrastino il degrado economico ma anche sociale.

Lo sviluppo economico si preannuncia lento e non privo di insidie: la forte opposizione islamica, contraria alla liberalizzazione, non vede ovviamente di buon occhio le aperture verso l'Occidente. Solo risultati tangibili potranno giustificare un simile cambio di rotta. L'obiettivo finale è quello di creare la condizione per una nuova crescita e rinnovare il sostegno popolare al regime.




[1] Istituto Nazionale per il Commercio Estero

[2] CIA

[3] ibidem

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