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Scritto da nel Economia e Mercati, Numero 38 - 1 Maggio 2008 | 0 commenti

Semiologia del ratto americano (al cinema)

Semiologia del ratto americano (al cinema)

Buono o cattivo? Negli Stati Uniti il topo di fogna può essere anche il proprio capo
Si stima che la sola New York sia abitata da un essere umano ogni sei ratti. Milioni e milioni di topi passeggiano liberamente per Central Park, popolano le case sul mare di San Francisco, e ovunque si intrufolano nei pantaloni degli spettatori nei cinema: i topi amano il cinema, perché il pavimento è pieno di pop corn.
Gli USA come non li avete mai visti? Già, perché Hollywood dimentica quasi sempre questo dettaglio, quanto mai presente invece nella quotidianità domestica di tante abitazioni. Eppure, a ben guardare, anche il cinema ama i topi, o almeno quello per bambini: fin dagli anni '50 i tentativi di esorcizzare la paura dello sporco animaletto hanno popolato l'immaginario dei più piccoli. Di fatto, i topi portano malattie, possono veicolare pulci e con esse pestilenze; nell'antico Egitto, terra di granai e di frequenti ruberie da parte dei roditori, si venerava come sacro l'animale capace di scacciarli, il gatto.
Tuttavia, in tempi più moderni, Topolino, Jerry, i sorcetti di Cenerentola, Basil l'Investigatopo, Bianca e Bernie e così via sono stati tutte creature graziose, per le quali i disegnatori più celebri si sono ispirati a una fauna tanto spesso osservabile, e con cui hanno cercato di sconfiggere attraverso le armi del cartoon la biologica pericolosità di un animale che si preferisce non avere in casa, né tanto meno tra i piedi, lungo le sedie di quella sala buia nella quale si sta guardando un film. L'ultimo peloso amichetto si chiamava Remy in Ratatouille, ennesimo premio Oscar come miglior film di animazione alla fabbrica Disney, che folle intere di giovanissimi e meno giovani hanno adorato. Sono costretta a levare una voce fuori dal coro: Remy sarà anche antropomorfico, ma forse perché (in America) ho visto una volta dei topi gironzolare in un secchiaio, trovo che vi sia e rimanga qualcosa di intrinsecamente ripugnante nell'idea di un ratto affaccendato tra pentole e stoviglie.

banksy
All'incirca un anno prima del momento in cui Remy intingeva le sue zampette nelle salse, usciva invece al cinema “The Departed”, uno dei migliori film di Scorsese, che mi piacerebbe definire “neoclassico”, perché eredita da Hitchcock uno stile impeccabile, una trama che sfiora la psicoanalisi e un intreccio perfettamente costruito, e da Billy Wilder la capacità di utilizzare gli attori come veri e propri feticci, quasi rappresentanti la loro stessa fama cinematografica (Jack Nicholson genio del male, Di Caprio eroe perfetto e buono alla Romeo); ma riadattando questi elementi di fine art con il gusto e il montaggio richiesti dal nuovo millennio. In questo film, il “ratto” riacquista le sue caratteristiche naturali: non è più un cuoco simpatico né un aiutante premuroso, ma è colui che lavora nell'ombra, che tradisce i compari, che si nutre di sporco, di avanzi, di rifiuti. È la spia, l'infame.
Come nella cultura popolare; che riserva al ratto, questa volta fuori dagli schermi, un'altra incarnazione ben bizzarra. Correvamo in macchina sulle strade di Brooklyn, il mio capo al volante; vidi un tratto alla mia destra, alto circa tre metri, un enorme ratto gonfiabile, dai denti aguzzi grondanti sangue; allucinazioni? La fobia dei topi mi perseguitava, non c'era parco in cui non li vedessi scorazzare dopo il tramonto, non vi era casa in cui non ne distinguessi l'odore che ormai, dopo quasi un anno negli States, avevo mio malgrado imparato a riconoscere. Fu il mio capo a spiegarmi di cosa si trattava: una fabbrica in sciopero. È difficile che gli americani scioperino, perché perdono i giorni di paga; ma se lo fanno, significa che ci sono i motivi per farlo, la protesta dura settimane, interi settori si paralizzano. In una città come New York, qualsiasi cosa va sempre fatta in grande. Anche erigere un gigantesco pupazzo a simbolo del proprio datore di lavoro, sfruttatore e “infame”. Gli scioperanti dicono a chi passa: in questa azienda, comanda uno sporco topastro. Immaginate quanta fretta avrà, il padrone, di rivedere le sue condizioni contrattuali: il danno d'immagine è enorme. Si sciopera poco, ma quando lo si fa, funziona.
Tornando a Ratatouille, l'ho detestato: i ratti mi fanno venire la pelle d'oca, l'umorismo è troppo nero, la violenza troppo esplicita; sotto la solite coltre infeltrita dei buoni sentimenti, l'ho trovato un film, se posso permettermi, a dir poco reazionario. E guarda caso, ambientato in Francia: gli Stati Uniti preferiscono attribuire all'Europa lampadari grondanti topi e ristoranti luridi. O forse, l'antica figura del topolino domestico, che si nasconde nei buchi dove non arriva il gatto, non ha più bisogno di essere esorcizzata; ora che si parla di ratti di fogna, meglio tenere la storia lontana da un paese dove la disoccupazione frequente e la sua conseguenza più ovvia, cioè lo sfruttamento sul lavoro, potrebbero molto presto diventare la nuova emergenza.

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