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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 41 - 16 Giugno 2008 | 0 commenti

Un saluto a Dino Risi

I critici vorrebbero che noi facessimo i film che loro farebbero se li sapessero fare. In questo incisivo aforisma è concentrata parte dell'ironia e del finto cinismo che ha animato le pellicole di uno dei più longevi e creativi cineasti italiani, Dino Risi.

Gli anni della totale affermazione di Risi, sono quelli in cui la commedia italiana degli anni cinquanta, rosa e distensiva, inizia a trasformarsi nella commedia all'italiana, presentando caratteristiche di stereotipia e facendo leva sull'affermazione di attori (i mostri), che diventeranno delle vere e proprie maschere dell'italiano medio. Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Alberto Sordi e Ugo Tognazzi di capolavoro in capolavoro, si cuciono addosso come una doppia pelle, il cinismo e l'arte di arrangiarsi filtrata dalla lente dei grandi cineasti dell'epoca.

La classica suddivisione tracciata nelle Poetica aristotelica tra commedia e tragedia, e le convenzioni letterarie e teatrali, non sono riuscite a circoscrivere in modo univoco la straordinaria difformità di un genere, dove l' happy-ending non rappresenta certo la conditio sine qua non per definirlo.

Il cinema italiano a partire dagli anni Sessanta, sembra voler ripercorrere l'esaurirsi dello sfrenato ottimismo post-bellico che aveva interessato trasversalmente la società, incidendo inevitabilmente sull'ambito estetico, abituando il grande pubblico al lieto fine ed a risate eticamente corrette. L'affievolirsi di quella spinta propulsiva, che alimentava la fiducia in una società rappresentabile con i colori tenui del rosato, cede il passo ad una commedia che inizia a problematizzare i propri finali: l'esito tragico, impensabile fino al decennio precedente, si affaccia sul cinema d'autore, aumentando il proprio impatto emotivo a causa dello svelamento fondamentalmente comico che lo precede. La morte, che attende indistintamente i protagonisti della Grande Guerra (1959 Monicelli) e de Il sorpasso (1962 Risi), sembra essere la sola alternativa plausibile alla demenza che sigilla l'ultimo capitolo de I mostri (1963 Risi), dove Gassman impersona un pugile di mezza età, che si lascia convincere da un amico ritardato (Tognazzi), a tornare sul ring nonostante i lunghi anni d'inattività. L'episodio si chiude amaramente dopo l'esito disastroso dell'incontro di pugilato, col sorriso ebete che accomuna i due amici cinquantenni, intenti a giocare in spiaggia con un aquilone.

La tragicommedia di Risi e Monicelli può quindi essere letta come il crinale, il punto di rottura etico ed estetico, tra il modo di fare cinema che gli ha preceduti e quello che gli ha visti come pionieri di una nuova arte, dove l'ironia può forse essere letta come quel residuo di pietas, capace di riabilitare il cinismo di personaggi infinitamente grandi nelle loro piccolezze. Dino Risi si è spento a Roma il 7 giugno 2008, ponendo fine ad una lunga vita e a una carriera cinquantennale. Non ci resta che augurargli di riposare in pace insieme ai suoi personaggi, e ringraziarlo per non avere intrapreso la carriera di psichiatra, verso la quale l'avevano indirizzato insistentemente i genitori dopo la laurea in medicina.

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