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Scritto da nel Economia e Mercati, Numero 42 - 1 Luglio 2008 | 0 commenti

Aumenta il consumo di antidepressivi: quale lettura?

Pe' li mali ce vò la medicina

ne convengo e la cosa è naturale
ma propone un benessere sociale a furia d'ignezioni de morfina
significa provede a li bisogni co' quello che se vede ne li sogni"
 
Trilussa, Nove poesie
 

Negli ultimi anni il consumo mondiale di psicofarmaci, e specialmente quello degli antidepressivi, è cresciuto vertiginosamente.
Veniamo a scoprire che molti degli studi condotti su questi farmaci, e che hanno dato esito negativo, sono rimasti negli archivi della Food and Drug Admistration perché l’enorme data-base, anche se accessibile a tutti, risulta incomprensibile per la sua complessità. Per di più, le case farmaceutiche o le stesse riviste scientifiche, hanno “preferito” spesso non pubblicare gli studi in questione (infatti solo talvolta sono stati diffusi ma non prima di essere stati riscritti in termini più soft[1]).
Tra sconcerto e indignazione ci si interroga sui reali benefici che queste pillole sono in grado di offrire, poiché, mentre in Italia l’Istituto Superiore della Sanità ci comunica gli effetti indesiderati che questi farmaci possono causare, il Corriere della Sera[2] ci informa che nel nostro paese nell’ultimo anno la prescrizione di antidepressivi a carico del Sistema Sanitario Nazionale è aumentata del 17,1% rispetto al 2006, per una spesa di 348 milioni di euro (dati riferiti ai primi nove mesi del 2007).
Cosa significa questo aumento?
Possiamo fare diverse ipotesi: può esservi una minore stigmatizzazione verso la depressione, e per questo si ricorre sempre di più al SSN? Oppure, può esservi un aumento del disagio sociale per cui le prescrizioni di antidepressivi si rivelano necessarie?
Se stiamo davvero diventando un popolo di depressi, bisogna sempre prescrivere dei farmaci quando siamo di fronte a questa patologia? Gli psicofarmaci possono essere un valido sostituto della psicoterapia con tempi e costi più contenuti?
 
Per rispondere a queste ed altre domande ho chiesto il parere di Genovino Ferri medico, psichiatra ed analista, che tutti i giorni si scontra con queste problematiche e mi ha spiegato: “i farmaci sono necessari quando un aspetto della personalità va oltre-soglia e si esprime con un corteo di sintomi, in questi casi la relazione d’aiuto da sola potrebbe non essere sufficiente ed allora lo psicofarmaco può essere utile per riportare sotto-soglia l’espressività sintomatica.
In psicopatologia non è fondamentale la somministrazione, ma “come” essa avviene: deve verificarsi sempre all’interno di un progetto anche psicoterapeutico, mirato al singolo, perché prescrivendo “solo” uno psicofarmaco introduciamo una modifica neurochimica  con il rischio di delegare al farmaco i problemi della persona.
Gli psicofarmaci, quindi, vanno sempre inseriti all’interno del progetto mirato sulla persona che la guarda per intero e ne rispetta i tempi, le emozioni, la storia e la dignità”.
 
E la massiccia prescrizione di antidepressivi a cosa è dovuta? Riguardo a questo il Dottor Ferri sostiene che “viviamo in un tempo accelerato, un tempo borderline in cui c’è la dissociazione tra l’intelligenza cognitiva (quella neo-palliale) e l’intelligenza emozionale (quella del sistema limbico), per cui i sentimenti e l’affettività sono distanti dal pensiero, ci sono più informazioni e meno sapere. L’accelerazione fa vivere solo emozioni, esse per divenire sentimenti hanno bisogno di tempo e non ce l’abbiamo, siamo più affaccendati ma anche più vuoti”.
 
Questo è ciò che Ferri definisce “il furto del tempo” perpetrato ai danni delle relazioni affettive fra le persone richiamate verso “il fuori”, verso la competizione sociale così da avere poco tempo per “il dentro”, per il tempo introspettivo, il tempo dei sentimenti.
 
“Gli antidepressivi – spiega – danno sostenibilità allo stress adattivo, e se molte persone devono ricorrervi essi rappresentano chiaramente un indicatore di insostenibilità di ritmi, di una trasformazione in atto della vita che va accompagnata da maggiori responsabilità intelligenti da parte dell’homo cosiddetto sapiens”. 
 
Ma cosa possiamo auguraci per il futuro? Si prospetta una soluzione possibile o saremo risucchiati tutti da questo vortice?
Ferri sostiene che “solo la ricombinazione dell’intelligenza del pensare (cognitiva) e di quella del sentire (emozionale) che formano l’intelligenza del sapere ci può restituire l’equilibrio tra l’accelerazione e il vuoto che questa provoca.
Solo il riassetto di queste due straordinarie intelligenze nella nostra storia può darci una sostenibilità di sviluppo futuro, così da tener basso il rischio dell’oltre-soglia sintomatologico. Se “ieri” il disturbo prevalente era la nevrosi, “oggi” sono il disturbo borderline e la depressione. Sulla scia di questo caduta delle relazioni affettive, “domani” potrebbe presentarsi la psicosi?”
C’è un grande rischio, ma Ferri dice che “questo non sembra un avvenire possibile, bisogna fidarsi  dell’intelligenza stratificata nella storia della vita di questo pianeta”. Lui sta “dalla parte del sapere, dalla parte del tempo, dalla parte dei sentimenti, dalla parte delle relazioni affettive, dalla parte di un’integrazione fra lo straordinario sviluppo tecnologico ed il rispetto del tempo emozionale”.
 
 
Per saperne di più
 


[1] Corriere della Sera Nazionale del 27 gennaio 2008
[2] Inserto Salute, 27 gennaio 2008

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