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Scritto da nel Economia e Mercati, Numero 42 - 1 Luglio 2008 | 0 commenti

Brevetti: in cerca di un centro di gravità permanente

Davanti a tutti gli sprechi statali, all’ elefantiaca burocrazia ed all’eccessiva regolamentazione il concetto di “fallimento di mercato” fa proprio innervosire i liberisti. Nostalgici della mano invisibile o lungimiranti visionari sull’impossibilità della pianificazione economica? Come lo statalista più convinto, anche il liberista  rischia però di esser colpito dalla sindrome dell’intellettuale estremista. Il sintomo più evidente sono argomentazioni su qualunque tema economico ma comunque tutte fondate su un unico principio dogmatico: il libero mercato come migliore soluzione ad ogni problema.  
Il brevetto è un esempio di come questo non sia sempre vero. Al contrario, il tema della proprietà intellettuale mostra come il giusto bilanciamento tra libero mercato e regolazione statale costituisca ancora oggi, a distanza di oltre tre secoli da Adam Smith, uno delle questioni irrisolte della scienza economica.
Il brevetto è a tutti gli effetti una forma di regolazione attraverso cui l’autorità statale mette mano al libero mercato. All’inventore di un bene che soddisfa i requisiti di brevettabilità viene infatti riconosciuto un diritto (non naturale) di esclusività nella commercializzazione del bene in questione. In assenza di concorrenza, l’unico limite al potere di monopolio generato dal brevetto diventa il consumatore che, anche se impossibilitato a rivolgersi ad un altro fornitore, rimane pur sempre libero di non acquistare il bene brevettato, qualora ritenuto troppo caro.
 È con i beni di prima necessità, come i medicinali, che il brevetto mostra le primi controindicazioni. In questo caso la soglia del “troppo caro” si alza, e ci si trova costretti a pagare per un farmaco un prezzo molto superiore al suo costo di produzione. In assenza di brevetto infatti altri concorrenti potrebbero offrire lo stesso farmaco ad un prezzo inferiore di quello imposto dal monopolista, a beneficio dei consumatori.    
Ecco il contraddittorio: da un lato lo Stato istituisce un’autorità per la tutela della concorrenza nei mercati (antitrust), dall’altro lo stesso Stato limita artificialmente la concorrenza attraverso l’assegnazione dei brevetti. 
Perché mai allora gli economisti (anche i liberisti) riconoscono l’importanza dei brevetti (ed implicitamente i limiti del mercato)?
La risposta è pressoché unanime: senza brevetti le imprese sarebbero restie ad investire ingenti somme nella invenzione di un farmaco (o di una formula). Come potrebbero infatti recuperare i costi della ricerca in un mercato popolato da concorrenti opportunisti, che prima attendono in pantofole l’invenzione del farmaco per poi copiarlo a costo zero?
Senza quella protezione da concorrenti sciacalli garantita dai brevetti, non ci sarebbero investimenti, non ci sarebbe ricerca privata, non ci sarebbero invenzioni: il mercato dei farmaci non esisterebbe. È la tragedia dei commons, argomento già trattato in precedenza nelle pagine dell'Arengo.
Il potere di monopolio generato dal brevetto è il prezzo da pagare oggi, per garantire la ricerca e lo sviluppo di medicine domani. A ben vedere, la contraddizione tra brevetti ed antitrust è quindi solo apparente; entrambi sono pensati e finalizzati alla tutela del mercato e dei consumatori.
Nonostante queste parole rassicuranti, i consumatori sono ancor lontani dal poter dormire sonni tranquilli.
Appena scampata la tragedia dei Commons ed il fallimento del libero mercato, una nuova tragedia si presenta alle porte: è quella opposta degli Anti-Commons. È il fallimento della regolamentazione e, in un certo senso, la rivincita del liberista.
Nel caso di una regolamentazione eccessiva quello stesso strumento ideato per incentivare la innovazione rischia di portare ad effetti opposti a quelli desiderati. Torniamo all’esempio dei farmaci. È difficile che un medicinale venga creato dal nulla; spesso è la combinazione di diverse formule chimiche, di molecole e di reazioni l’unico antidoto alla malattia da curare. Ognuna di queste formule non ha alcun valore in sé, eppure è un tassello fondamentale per l’ultimazione del farmaco e, come tale, garantisce un potere contrattuale non trascurabile a chi ne detiene l'esclusività. 
l'effetto di un brevetto che garantisce una remunerazione sproporzionata rispetto al valore effettivo del bene registrato non può che incentivare i ricercatori a correre per brevettare il brevettabile (patent race).
Ma se ogni formula è quella indispensabile il costo per collezionare tutti i brevetti necessari a produrre il medicinale a valle cresce esponenzialmente, a scapito della innovazione e diffusione del bene.
Qual è il giusto equilibrio tra commons e anti-commons per non fallire nelle trappole del eccessivo mercato e della eccessiva regolamentazione dello stesso? Quale sia la ottima durata di un brevetto, la giusta protezione e remunerazione dell’invenzione rimangono tuttora le domande aperte a cui non si è trovata una soluzione esatta. Per la gioia degli economisti, il mercato farmaceutico è ancora alla ricerca del suo centro di gravità.

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