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Scritto da nel Economia e Mercati, Numero 42 - 1 Luglio 2008 | 0 commenti

I 'neglected disease': il mercato che c'è ma non si vede

Knowledge is like a candle. When a candle lights another candle it does not diminish the light from the first candle” – Thomas Jefferson 

Il progresso nella ricerca farmaceutica degli ultimi 30 anni ha determinato un sostanziale aumento delle aspettative di vita umana ed un grande miglioramento nella qualità di vita. Tuttavia, questa ‘rivoluzione sanitaria’ ha interessato solo una piccola parte della popolazione mondiale.

Nei Paesi in via di sviluppo, più di 350 milioni di persone attualmente muoiono a causa di malattie legate alla povertà per le quali non esiste una cura adeguata. E pur costituendo potenzialmente circa il 90% delle vendite globali di farmaci, di fatto essi rappresentano soltanto il 10%.

Questa disuguaglianza trova una duplice causa: da un lato, l’insostenibilità finanziaria della spesa farmaceutica necessaria per curare patologie croniche impedisce ai governi di tali Paesi di garantire la salute ai propri cittadini[1]; dall’altro lato, l’accesso alle cure è precluso dall’inesistenza di ricerca sul campo.

Molte delle malattie che affliggono interi Paesi, impedendone lo sviluppo economico e l’autoderminazione[2], sono pertanto ‘dimenticate, ‘ignorate’. I cosiddetti ‘neglected diseases’ sono, infatti, quelle malattie gravi, che portano alla disabilità permanente o alla morte, per le quali non esiste una cura o non ne esiste una adeguata, e quando il mercato potenziale per tali cure non attrae il settore privato. Alcuni esempi sono la malaria, la tubercolosi, il human African trypanosomiasis (nota come ‘malattia del sonno’ provocata dalla puntura della mosca tzè tzè), il South American trypanosomiasis (Chagas disease), il Buruli ulcer, la febbre dengue, la leishmaniasis, il leprosy, il lymphatic filariasis e la schistosomiasis. Tra i neglected disease vi sono inoltre i most neglected disease, malattie che affliggono persone talmente povere da non avere virtualmente alcun potere d’acquisto e per le quali non è in corso alcun progetto di ricerca scientifica presso le società farmaceutiche. Tutte le malattie elencate più sopra, tranne le prime due, sono most neglected disease. Tutte quante affliggono in maniera quasi esclusiva il continente africano e il Sud America.

Innovazione farmaceutica? Bisogna pagarla.

Le case farmaceutiche, grazie alla protezione brevettuale che li difende dalla concorrenza, possiedono un forte potere di mercato che consente loro di applicare prezzi molto alti in relazione ad un ampio numero di specialità medicinali fondamentali nella cura di patologie croniche e debilitanti.

La teoria economica insegna che i brevetti pongono rimedio ad un fallimento del mercato: essi hanno, infatti, la funzione di stimolare l’innovazione dando la possibilità alle case farmaceutiche di recuperare gli investimenti in ricerca e sviluppo. Tuttavia, essi ne creano un altro: i prezzi praticati durante la copertura brevettuale risultano inaccessibili per coloro i quali non hanno i mezzi finanziari per permetterseli. Da qui scaturisce la tensione fra due obiettivi di politica economica: l’incentivo all’innovazione farmaceutica e l’accesso generalizzato ai farmaci[3].

Se nei Paesi sviluppati tale tensione assume rilevanza in termini di uso efficiente del budget sanitario pubblico – problema generalmente risolto con la contrattazione dei prezzi dei medicinali o l’utilizzo di mezzi indiretti di contenimento della spesa -, nel caso dei Paesi in via di sviluppo tutto ciò si traduce in una drammatica conseguenza: le società farmaceutiche non fanno ricerca sulle malattie che affliggono persone che non hanno sufficiente potere d’acquisto.

Quando, infatti, il valore atteso dei profitti di monopolio derivanti dalla vendita di un farmaco è minore dei costi di ricerca e sviluppo necessari per scoprirlo, si perde ex ante l’incentivo ad investire nel progetto di ricerca. In parole povere, le società farmaceutiche dirigono le loro risorse finanziarie quasi esclusivamente verso mercati appetibili in termini di ricavo[4]. La conferma viene dalle statistiche: tra il 1975 il 1999 sono state prodotte e commercializzate 1939 nuove medicine e di queste solo 13 avevano un’indicazione terapeutica adatta alla cura di malattie legate alla povertà. Tra di esse, due erano state commissionate dall’esercito americano e cinque erano un sottoprodotto di ricerca veterinaria.

Più soldi = più innovazione?

Il caso dei neglected disease è l’esempio emblematico di come il sistema brevettuale, pensato per fornire gli incentivi appropriati all’innovazione, proprio in settori delicati come quello farmaceutico, in questo caso non li fornisca affatto ed, anzi, abbia risultati opposti.

Tutto ciò necessariamente induce una riflessione più approfondita.

Appare lecito chiedersi se diritti di proprietà intellettuale più forti, sottoforma di un diritto di esclusiva assoluto che consente di praticare prezzi alti per assenza di qualsiasi tipo di concorrenza nel periodo di copertura brevettuale, siano davvero necessari per stimolare di più l’innovazione.

Certamente il brevetto è uno dei motori fondamentali dell’innovazione ma non è l’unico. Innanzitutto, la stessa teoria economica dimostra come l’appropriazione totale dei frutti dell’investimento non incrementi necessariamente l’incentivo ad investire in ricerca e sviluppo. Vi è, infatti, un punto in cui l’investimento non è più conveniente perché il costo marginale è maggiore del beneficio marginale che da esso si può trarre. In altre parole, le società farmaceutiche investono in ricerca l’ammontare di risorse necessario per rimanere competitive sul mercato.

In secondo luogo, è importante analizzare come e dove le società farmaceutiche investono i profitti ottenuti dalle vendite. La risposta è nota: essi per la maggior parte non sono investiti in ricerca sviluppo, e recenti stime confermano il fatto che le case farmaceutiche spendano più della meta dei loro profitti in marketing e pubblicità[5].

Inoltre, si deve guardare anche alla tipologia dell’output della ricerca: la maggior parte dei farmaci approvati negli ultimi anni sono i cosiddetti ‘me too drugs’. La diminuzione di produttività registratasi a partire dagli anni ’80 fino ad oggi ha reso le società farmaceutiche molto più avverse al rischio, inducendole a focalizzarsi su progetti di ricerca ‘sicuri’, ovvero sul miglioramento di medicinali esistenti (la riduzione di effetti indesiderati, o la semplificazione nell’assunzione, ad esempio tramite farmaci settimanali anziché giornalieri, etc.) piuttosto che sulla ricerca di base per la scoperta di farmaci innovativi.

Insomma, l’innovazione non si basa e non si deve basare soltanto sul ritorno economico atteso sull’investimento, e quindi sul prezzo. Ad esempio, un ambiente scientifico stimolante e produttivo, generato dalla condivisione della conoscenza, in un settore che si basa sull’innovazione incrementale, gioca un ruolo fondamentale.

La Storia fornisce al riguardo importanti esempi[6]. Gettando un rapido sguardo all’evoluzione dell’industria farmaceutica italiana, si può osservare come l’introduzione dei brevetti farmaceutici (sancita dalla Corte Costituzionale nel 1978) non abbiano generato alcun significativo incremento del tasso di innovazione e come, al contrario, si sia registrata nei decenni successivi una perdita di competitività del settore a livello mondiale. Al contrario, prima dell’introduzione della brevettabilità dei farmaci, la fiorente industria italiana di generici aveva la possibilità di copiare i prodotti inventati dalle società estere stabilite in Italia e commercializzarli ad un prezzo inferiore. Tuttavia, tali aziende non si limitarono ad imitare le innovazioni delle società farmaceutiche ma ne svilupparono di nuovi utilizzando prodotti non brevettabili o il cui brevetto era scaduto come ingredienti.

Un esempio molto simile ci viene ora fornito dall’India, che è diventato probabilmente il più importante centro di produzione di prodotti farmaceutici al mondo, pur non avendo un sistema di protezione brevettuale fino al 2005[7].

Recenti iniziative

Il caso dei  neglected diseases non rappresentano solamente un caso di fallimento di mercato ma anche di fallimento della politica. I governi, infatti, sono responsabili della salute pubblica dei propri cittadini ed hanno il dovere di intervenire quando le forze di mercato da sole non riescono ad incontrare i bisogni degli individui. Tuttavia, l’azione governativa fino qualche tempo fa è stata inadeguata.

Al contrario, recentemente sono sorte alcune iniziative pubblico-private, sotto la spinta dell’opinione pubblica sensibilizzata dalla campagna di organizzazioni umanitarie come Médecins Sans Frontières: il DNDi (Drugs for Neglected Diseases Initiative), Medicines for Malaria Venture, Global Alliance for TB Drug Development, Indian Council for Medical Research, ma anche centri di ricerca come il Pasteur Institute.

Il DNDi, in particolare, è un’organizzazione no profit che ha come missione la mobilitazione di capitali per la ricerca di cure per i neglected diseases, che, con l’aiuto di Sanofi-Aventis ha recentemente scoperto e realizzato un farmaco antimalarico (il ASAQ). Tale farmaco è innovativo quanto al principio attivo contenuto, tollerato da un ampio spettro di pazienti di varie fasce d’età, semplice da assumere (una volta al giorno) e qualitativamente garantito. Ciononostante, non è coperto da brevetto e viene venduto nei Paesi in via di sviluppo al prezzo di 0,50-1 $ per confezione.

Accanto a tali enti, le stesse società farmaceutiche da sole iniziano a muoversi. Novartis, insieme ad altre grandi multinazionali, ha abbracciato la ricerca filantropica, aprendo nel 2006 un istituto di ricerca, il Novartis Vaccines Institute for Global Health (NVGH), a Siena con l’esclusiva missione di sviluppare vaccini per le malattie del terzo mondo.

Spostando il punto di vista…

Economisti di fama mondiale, come Stiglitz, hanno da tempo proposto la riforma del sistema brevettuale, almeno nel settore farmaceutico.

La soluzione proposta dal Premio Nobel, ed elaborata da altri studiosi, prevede un meccanismo di remunerazione cumulativo a quello stabilito dal sistema dei brevetti: le società farmaceutiche rinuncerebbero al diritto all’esclusiva in favore di un alternativo sistema di remunerazione basato su fondi pubblici e proporzionato all’impatto innovativo della loro invenzione.

Questo sistema, al contrario dei brevetti, non restringerebbe l’accesso ai benefici che derivano dalla condivisione della conoscenza[8]. Ciò renderebbe i farmaci disponibili ad un prezzo minore, diffonderebbe la conoscenza alla base della scoperta scientifica e allo stesso tempo stimolerebbe la ricerca, specialmente per i neglected disease.

Ciò stimolerebbe l’inventore a sviluppare farmaci cost-effective che hanno il massimo impatto in termini di salute. Anzi, si diffonderebbe l’incentivo a dare la priorità alla prevenzione anziché al trattamento, contrariamente all’incentivo presente al momento, dove le terapie farmacologiche sono più remunerative dei vaccini.

Indurrebbe i genericisti a produrre copie del farmaco ad un prezzo ancora inferiore, dal momento che questo avrebbe l’effetto di aumentare il numero dei pazienti che lo utilizzano e diffonderne l’impatto positivo. Allora i Paesi in via di sviluppo non sarebbero più lasciati da parte perché poco lucrativi ma sarebbero al centro delle strategie delle società[9].

Ciò consentirebbe di utilizzare in maniera efficiente le risorse in maniera da avere una salute migliore ad un costo inferiore.

Questo non sostituirebbe il sistema dei brevetti ma sarebbe parte della strategia utilizzata per incoraggiare la ricerca scientifica in campo farmaceutico.



 

 

[1] Si veda l’esempio emblematico del dibattito che tra il 2000 e il 2003 ha circondato la richiesta, dap arte del governo e di MSF, di ridurre i prezzi dei farmaci antiretrovirali in un Paese come il Sud Africa dove una persona su cinque è affetta da HIV.

 [2] In aggregato, nei Paesi in via di sviluppo muoiono 500.000 persone a causa dei cosiddetti neglected disease. In termini di DALY (disability-adjusted life year) il peso sociale di queste malattie e equivalente ad un quarto dell’AIDS.

  [3] In un report del WHO del 2004 viene indicato che circa il 30% della popolazione mondiale ha difficoltà di accesso alle medicine. Questa percentuale arriva al 50% in alcune zone dell’Africa e dell’Asia. Si veda .

 [4] Ciò viene confermato da un recenti studio che dimostra che la ricerca scientifica delle grandi multinazionali farmaceutiche e’ intensamente stimolata dalla domanda di farmaci degli Stati Uniti. Civa e Maloney, The Determinants of Pharmaceutical Research and Development Investments, Contributions to Economic Analysis & Policy, Volume 5, Issue 1, 2006.

 [5] Si veda Gagnon e Lexchin, The Cost of Pushing Pills: A New Estimate of Pharmaceutical Promotion Expenditures in the United States, in PlosMedicine, Vol. 5, n. 1, 2008.

 [6] Si veda Scherer e Weisburst, 1995.

 [7] L’India ha introdotto la brevettabilità dei farmaci nel 2005 per adempiere alle sue obbligazioni derivanti dalla sua partecipazione al WTO.

 [8] Si veda Stiglitz, Knowledge Ecology, International, Research Paper, 2007.

 [9] Si veda Pogge, Human Rights and Global Health: A Research Program, in Barry e Pogge, Global Institutions and Responsibilities: Achieving Global Justice, 2005, pp. 190–217. 

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