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Scritto da nel Internazionale, Numero 43 - 16 Luglio 2008 | 0 commenti

Rivoluzione colorata in Mongolia: tentativo fallito

Le elezioni di fine giugno hanno restituito

la Mongolia al partito ex comunista, un risultato elettorale che ha però sconvolto la nazione provocando seri disordini nella capitale Ulan-Bator. La scena politica in Mongolia è infatti sempre stata dominata dal Partito Comunista, poi Partito Popolare Rivoluzionario Mongolo, con una pausa iniziata nel '96 e protrattasi fino ad oggi, attraverso governi del Partito Democratico e di larghe intese. Nonostante il successo del PPRM sia stato netto, le reazioni sono state selvagge e più violente che mai: la contestazione dei risultati ha portato l'1 luglio una folla di 8 mila manifestanti a prendere d'assalto la sede del partito vincitore appiccando un incendio, oltre a saccheggi in molti uffici governativi, dando vita ad una guerriglia cittadina che ha provocato 5 morti, circa quattrocento feriti tra poliziotti e civili, 500 fermi e più di 200 arresti. In seguito all'intervento dell'esercito, al coprifuoco notturno ed al ritorno della calma in città, i risultati sono stati confermati dalla Commissione elettorale con l'attribuzione di 47 seggi agli ex-comunisti e 26 al Partito Democratico su un totale di 76 a disposizione, con l'avallo degli osservatori internazionali che hanno giudicato il voto del 29 giugno regolare, smentendo i sospetti del Partito Democratico.

A cosa può essere attribuibile una così violenta reazione?

Gli eredi di Gengis Khan sono oggi quasi 3 milioni con un'età media di 25 anni[1], tra le più basse al mondo. La crescita, con un prodotto interno lordo al 9,9% (2007)[2], è agevolata dagli storici e consolidati rapporti privilegiati con la vicina Russia e Cina; ma

la Mongolia , la cui economia si regge ancora prevalentemente su pastorizia e agricoltura, sta subendo negli ultimi anni un rapido cambiamento soprattutto attraverso lo sfruttamento e la scoperta di nuovi ed enormi giacimenti di minerali: rame, oro, uranio, zinco, carbone, … . In tal senso possono indirettamente trovare una spiegazione le rivolte di piazza post elettorali: col prezzo di rame ed oro in continua ascesa,

la Mongolia si è rivelata agli occhi dell'Occidente come nuova Eldorado
, oltre ad una posizione strategica molto allettante dal punto di vista geopolitico, tra Russia e Cina. Che l'Occidente voglia quindi influenzare il risultato elettorale non deve quindi suonare strano, con un ovvio appoggio al Partito Democratico, liberista e filo-occidentale, in contrapposizione al Partito Popolare Rivoluzionario amico della Russia.

Ma non è tutto, dietro alle denunce di brogli c'è un nome e un cognome: George Soros[3]. Soros, famoso in Italia per il suo recente interessamento all'acquisto dell'AS Roma, è un imprenditore e filantropo statunitense di origine ungherese, a capo del potentissimo Open Society Institute (del Soros Foundations Network), “…a private operating and grantmaking foundation, aims to shape public policy to promote democratic governance, human rights, and economic, legal, and social reform…[4].

Noto per il suo appoggio a Solidarnosc in Polonia e a Carta77 in Cecoslovacchia, tanto da essere ritenuto uno degli artefici della fine del Comunismo e dell'URSS, Soros è stato la vera e propria èminence grise delle recenti rivoluzioni in Europa dell'Est: dalla Rivoluzione delle rose in Georgia (2003) a quella arancione in Ucraina (2004), fino alla Rivoluzione dei jeans in Bielorussia (2005-2006). I disordini a Ulan-Bator rientrano nella medesima strategia: tutte le così dette rivoluzioni colorate hanno utilizzato le elezioni per suscitare indignazione a livello locale ed internazionale, denunciando brogli e irregolarità (a torto o a ragione) allo scopo di spingere le folle a protestare contro governi in carica e vincitori. Lì dove la rivoluzione ha avuto successo, i paesi si sono aperti all'economia di mercato e ad investimenti esteri, l'esempio più eloquente è

la Georgia.

Lo stesso si tenta di fare in Mongolia ma sembra con scarso successo, per ora, considerando che già nel 2005 si era tenuta una rivoluzione gialla in sostegno a quella dei tulipani in Kirghizistan, senza seguito. L'organizzazione di Soros è stata protagonista della recente campagna elettorale organizzando conferenze e seminari tesi a preparare l'Opposizione mongola e ONG locali all'appuntamento monitorando la correttezza del voto. La reazione dei seguaci dell'opposizione è però degenerata da pacifica colorata protesta ad atti criminali e di vandalismo, tanto da indurre la stessa Fondazione Soros a dissociarsi e condannare le violenze.

Le ricchezze del paese pongono dunque

la Mongolia al centro dell'attenzione internazionale, uno stato conteso in particolare tra Russia e Stati Uniti. Nonostante l'ingresso di imprese internazionali e capitali esteri (in particolare USA e UK) nel paese in seguito ad una prima liberalizzazione economica, le preoccupazioni sono rivolte tutte alla tendenza dello Stato (e del PPRM) a mantenere e riaffermare il proprio controllo sulle ricchezze nazionali, con evidenti vincoli poco graditi alle imprese straniere. Ma non solo: il rapporto privilegiato tra vittoriosa nomenklatura mongola e Russia, pone le basi per un rinnovato asse, tanto da spingere il Wall Street Journal a parlare di una Mongolia governata dal Khan Gengis Putin[5].




[1] CIA – The World Factbook

[2] ibidem

[3] Così come illustrato tra gli altri da PeaceReporter.net

[5] Auslin M., “Genghis Putin”, WSJ, 24jun2008

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