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Scritto da nel Numero 50 - 16 Novembre 2008, Politica | 0 commenti

Diaz: la vergognosa sentenza

Diaz: la vergognosa sentenza

Chi scrive oggi lo fa di getto, senza troppo preoccuparsi della forma e del “deontologicamente corretto”. Chi scrive ha sempre pensato che palesare la propria opinione in un articolo, senza attenersi esclusivamente ai fatti, sia sintomo d’ingiustificata presunzione, da parte di chi non è nessuno se non una voce in mezzo alle tante. Tuttavia, chi scrive non può trattenersi dal manifestare oggi la sua personale indignazione di fronte a quella che ritiene una pagina nera della nostra storia contemporanea. Perché indignazione è l’unico sentimento che scaturisce dalla sentenza emessa il 13 novembre sui fatti accaduti alla Diaz. Indignazione nei confronti di uno Stato che condanna il sicario ma assolve il mandante. Indignazione verso quelle “Forze dell’Ordine” che anziché garantire la sicurezza hanno diffuso la violenza.

Il totale delle condanne richieste dalla pubblica accusa era pari a 108 anni; sono state inflitte pene per 35 anni e sette mesi, di cui, 32 anni e sei mesi saranno condonati. Dei 29 imputati, 16 sono stati assolti, tra loro Gratteri, Luperi e Calderozzi, (i funzionari di polizia che firmarono il verbale di perquisizione), ciò a smentire l’affermazione dei pm che sostennero che " l’operazione Diaz fu decisa, pianificata e organizzata dal vertice del Dipartimento della pubblica sicurezza", ciò a negazione del fatto che ci fu premeditazione.

Dopo 11 ore di camera di consiglio, alla lettura delle sentenza, un solo commento si è levato dalle file del pubblico: “Vergogna”. Tra quello stesso pubblico si trovava Mark Covell, il giornalista inglese di Indymedia.uk, che rimase coinvolto negli scontri di quella notte. La sua storia è la storia di tanti. Esempio emblematico di ciò che fu la “perquisizione” della Diaz.

Il 21 luglio 2001 Covell, allora 33 enne, si trova di fronte ai cancelli della scuola genovese. Quando la polizia chiude la strada, avvertendo il pericolo, inizia a sventolare il suo accredito stampa, pensando che quel foglietto possa in qualche modo aiutarlo ad evitare dei guai. D’altronde lui è solo un giornalista, pensa. La polizia si avvicina e lui continua a mostrare il suo accredito. Un foglio di carta però si sa, non può proteggere dai manganelli e mentre alcuni poliziotti iniziano a colpirlo, un altro con lo scudo lo spinge contro il cancello. Covell è a terra e loro continuano a picchiare, alle costole. Urlano: “You are a black bloc, we kill black bloc!”. Quando il giornalista inglese, esanime cade a terra semisvenuto, il suo calvario non è ancora finito. I poliziotti che fanno irruzione alla Diaz, continuano a colpirlo, ancora e poi ancora, gli tirano calci in ogni parte del corpo.

Mark Covell rimane 20 minuti disteso in quell’angolo in Via Cesare Battisti nell’indifferenza più totale, sull’asfalto il suo accredito stampa. La prognosi fu: un polmone perforato, un polso rotto, otto fratture alle costole, dieci denti in meno, una grave emorragia interna. Al suo risveglio in ospedale gli fu comunicato lo stato d’arresto per resistenza aggravata a pubblico ufficiale, concorso in detenzione d’arma da guerra e associazione a delinquere.

Di fronte ad una sentenza che non lascia spazio ad altro commento se non “Vergogna”, credo che qualcuno oggi dovrebbe perlomeno spiegare a Mark Covell perché la legge in Italia non è uguale per tutti.

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