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Scritto da nel Economia e Mercati, Numero 50 - 16 Novembre 2008 | 1 commento

La decrescita può essere felice – ecco come e perchè

Sostenere la necessità di una decrescita economica e produttiva, descriverne i vantaggi in termini di felicità individuale, di sollievo per gli ecosistemi terrestri, di relazioni più eque e serene tra gli individui e tra i popoli, è un passaggio obbligato nella costruzione di una nuova cultura capace di superare i terribili problemi che il sistema economico industriale fondato sulla crescita illimitata della produzione di merci, pone all'umanità e a tutte le specie viventi.
Ma è come voler parlare a voce in un ambiente dove un potente sistema di amplificazione sostiene contemporaneamente il concetto opposto.
Occorre ribadire in tutte le sedi i rapporti di causa-effetto tra la crescita del p.i.l. e l'esaurimento di risorse vitali, l'incremento esponenziale delle varie forme di inquinamento, la progressiva devastazione degli ambienti naturali e storicamente antropizzati, la disoccupazione, le guerre, il degrado sociale. Ma l'analisi e la denuncia non bastano. Occorre contestualmente effettuare nella propria vita scelte che comportano decrementi, anche infinitesimali, del p.i.l. Innanzitutto perché se si è convinti che la decrescita sia un elemento indispensabile per una vita più felice sarebbe sciocco non cominciare a praticarla subito nella propria.
Come si può praticare la decrescita nelle proprie scelte di vita?
Innanzitutto chiarendo a se stessi cosa è e come si realizza la crescita del p.i.l.
A differenza di quanto comunemente si crede, la crescita del p.i.l. non misura la crescita dei beni prodotti da un sistema economico, ma la crescita delle merci scambiate con denaro. Non sempre le merci sono beni, perché nel concetto di bene è insita una connotazione qualitativa – qualcosa che offre vantaggi – che invece non pertiene al concetto di merce. Se si fanno le code in automobile aumenta il consumo della merce carburante, quindi si accresce il p.i.l., ma si ha uno svantaggio, una disutilità. Viceversa, non necessariamente i beni sono merci, perché si può produrre qualcosa senza scambiarla con denaro, ma per utilizzarla in proprio o per donarla. I prodotti del proprio orto e del proprio frutteto autoconsumati non sono merci e, pertanto, non fanno crescere il p.i.l., ma sono qualitativamente superiori agli ortaggi e alla frutta prodotta industrialmente e comprata al supermercato. La cura dei propri figli o l'assistenza dei propri vecchi fatta con amore è qualitativamente molto superiore alla cura che può prestare una persona pagata per farlo. Ma questa attività prestata in cambio di denaro fa crescere il p.i.l., l'altra, donata per amore, no.
Fare scelte esistenziali nell'ottica della decrescita significa quindi ridurre la quantità delle merci nella propria vita. A tal fine si possono percorrere due strade:
1. ridurre l'uso di merci che comportano utilità decrescenti e disutilità crescenti, che generano un forte impatto ambientale, che causano ingiustizie sociali;
2. sostituire nella maggiore quantità possibile le merci con beni.
La prima è la strada della sobrietà. La seconda è la strada dell'autoproduzione e degli scambi non mercantili, basati sul dono e la reciprocità.
La sobrietà non è soltanto una virtù ma è, soprattutto una manifestazione di intelligenza e di autonomia di pensiero.
Chi vive in un appartamento dove in inverno la temperatura è di 22 gradi, indossando una maglietta a maniche corte e quando ha troppo caldo apre le finestre, è convinto di vivere meglio di una persona che vive a 18 gradi, con un maglione, e se ha troppo caldo abbassa il riscaldamento. In realtà è un consumista stupido, che vive in un modo fisiologicamente innaturale, è più soggetto ad ammalarsi, contribuisce ad accrescere in misura maggiore le emissioni di CO2 e, per ottenere questi svantaggi, paga di più. Ma fa crescere di più il p.i.l.
La sobrietà nell'acquisto di merci, in funzione di bisogni reali e non indotti, privilegiando quelle prodotte col minor impatto ambientale, che provengono da meno lontano e quindi hanno fatto consumare meno fonti fossili nel trasporto dal produttore al consumatore, che generano pochi rifiuti, che sono fatte per durare o per essere riciclate, è quindi al contempo una manifestazione d'intelligenza e una virtù. Comporta una decrescita del consumo di merci e del p.i.l. da cui deriva un miglioramento della qualità della vita e degli ambienti. Perché non sostituire prodotti agroalimentari carichi di veleni e senza sapore con l'autoproduzione di frutta e verdura? Diminuirebbe l' inquinamento dei suoli, l'inquinamento dell'aria causato dai consumi di energia necessari a produrre e trasportare le protesi chimiche. Ci sarebbero meno imballaggi o rifiuti da raccogliere e smaltire. Ognuno di questi vantaggi è un fattore di decrescita del p.i.l
Per aver bisogno di comprare tutto ciò che serve a soddisfare i propri bisogni vitali bisogna essere incapaci di tutto. Solo chi non sa fare niente di ciò che gli serve può diventare un consumista senza alternative. La condizione di non saper produrre nessun bene, o quasi, nei paesi industrializzati è ormai generalizzata. Oggettivamente costituisce un enorme depauperamento culturale, che invece è stato proposto e vissuto come un progresso e come un'emancipazione dell'uomo dai limiti della natura. La rivalutazione dell'autoproduzione di beni e servizi non solo consente di ridurre il consumo di merci e, di conseguenza, il p.i.l., ma anche di riscoprire un sapere e un saper fare dimenticati, considerati arretrati e poco scientifici perché non finalizzati ad accrescere le quantità. Ha quindi una grande valenza culturale, che non si limita a questo recupero di conoscenze, ma, cosa ancora più importante, libera dalla dipendenza assoluta dalle merci.
Nessuno però potrebbe illudersi di autoprodurre tutto ciò che gli serve per vivere. L'autoproduzione di beni e servizi può essere tuttavia potenziata da scambi non mercantili fondati sul dono e sulla reciprocità, che oltre a essere fattori di decrescita economica contribuiscono anche a rafforzare i legami sociali.
In tutte le società di tutti i luoghi del mondo in cui si sono realizzate prima dell'industrializzazione e dell'estensione della mercificazione a tutte le sfere della vita umana, queste forme di scambio non mediato dal denaro hanno seguito tre regole, non scritte, ma generalizzate: l'obbligo di donare, l'obbligo di ricevere, l'obbligo di restituire più di quello che si è ricevuto. In questo modo si creano legami sociali, mentre gli scambi mercantili li distruggono. La parola “comunità”, formata dall'unione delle parole latine cum, che significa “con”, e munus, che significa “dono”, indica un'associazione fondata su scambi non mercantili, sul dono e la reciprocità, su legami sociali più forti di quelli esclusivamente mercantili che legano i membri di una società. Maggiore è l'incidenza degli scambi fondati sul dono e la reciprocità, minori sono gli scambi mercantili.
Per allargare sempre di più la sfera degli scambi mercantili, la sfera delle merci, e quindi la crescita del p.i.l., la società industriale ha distrutto progressivamente gli scambi non mercantili, anche all'interno dei nuclei comunitari più forti, quelli fondati sui vincoli del sangue. Le famiglie sono state vieppiù ridotte al nucleo ristretto di genitori e figli e anche nei legami tra genitori e figli i servizi alla persona fondati sul dono e la reciprocità sono stati progressivamente sostituiti da prestazioni a pagamento: in particolare la cura dei piccoli e degli anziani. Rivalutare i legami comunitari nelle famiglie, rompere i limiti mononucleari in cui la famiglia è stata ristretta, riscoprire l'importanza dei rapporti di vicinato, costruire gruppi di acquisto solidali e banche del tempo (sebbene quanta cultura mercantile indotta è insita nella denominazione di “banca” data ad una forma di legame sociale che si propone di rompere i limiti della mercificazione nella fornitura di servizi alla persona!), restituire ai nonni il loro ruolo educativo e di trasmissione del sapere nei confronti dei nipoti: tutto ciò comporta una decrescita del p.i.l. attraverso una riduzione della mercificazione nei rapporti interpersonali e al contempo forti miglioramenti della qualità della vita.
La sobrietà, l'autoproduzione e gli scambi non mercantili non possono comunque abolire la dimensione mercantile, né sarebbe auspicabile che ciò avvenisse, perché alcuni beni e servizi possono solo essere acquistati e la loro privazione peggiorerebbe le condizioni di vita.
Ma possono contribuire a ridurla in maniera determinante, riportandola alle sue dimensioni fisiologiche.
Un movimento che si proponga l'obiettivo di riconquistare equilibri sconvolti dal meccanismo della crescita economica e che persegua la decrescita come pre-requisito di questa riconquista, non può che proporsi di mettere in rete questi luoghi dove l'autoproduzione dei beni ha ancora un ruolo centrale. Rimettere in circolo questo sapere e questo saper fare, può costituire un'alternativa alla mercificazione totale che caratterizza la società della crescita.
Il primo passo in questa direzione è una mappatura di questi luoghi, mettendo in evidenza le forme di autoproduzione che vi sono praticate per soddisfare una parte del fabbisogno di chi li abita. La reciproca conoscenza può attivare scambi di conoscenze che consentono di ampliare la gamma di beni autoprodotti in ogni realtà, con benefici effetti, quantitativi e qualitativi, sul processo della decrescita. La mappatura di questi luoghi consentirà anche a chi vuole cominciare a introdurre nella sua vita elementi di autoproduzione per sottrarsi al meccanismo totalizzante del mercato, di sapere dove andare per imparare a fare i primi passi in questa direzione o a implementare le proprie conoscenze per arricchire la gamma dei beni con cui sostituire in misura sempre maggiore le merci che acquista. I luoghi in cui si praticano forme di autoproduzione sono numerosi.
La varietà dei beni che si autoproducono più ampia di quanto s'immagini. Il bisogno di liberarsi dalla mercificazione assoluta spesso rimane mortificato dal non sapere come fare. Può mettersi in moto un processo moltiplicatore con effetti significativi sulla decrescita del p.i.l. e, forse, anche sulla felicità individuale di molte persone. Non è forse questo il significato più profondo della politica?
Per saperne di più visitate il sito di Maurizio Pallante

1 Commento

  1. Gentile Professor Pallante,
    le sue osservazioni sono al solito molto interessanti e provocanti. Mi consenta però di dissentire su alcuni dei punti da lei sottolineati.
    In primis, la decrescita in quanto tale: ridurre il PIL attraverso la riduzione delle spese non produttive è cosa giusta a mio parere, esistono indicatori come il PIL Verde che vanno in questa direzione.
    Altra cosa è rifugiarsi nell'autoproduzione.
    Sensa le economie di scala garantite dalla produzione di massa mi dovrebbe spiegare come sfamare i 6 miliardi di individui che siamo adesso. So bene che ad oggi esiste un problema di allocazione, per cui la malnutrizione è un problema reale. Ma auto-produrre significherebbe non avere neanche la possibilità teorica di sfamare tutti gli esseri umani.
    Se si spera di arrivare a questo traguardo credo che bisognerebbe cominciare nel Sud del mondo, non nella (ancora per poco) opulenta Italia.
    Ancora: vorrei ricordarle che la vostra generazione ha lottato per liberarsi dall'autorità dei nonni e dei genitori e per emancipare l'individuo, adesso che siete passati dall'altra parte lasciateci fare a noi la nostra battaglia per liberarsi dalla morsa della “auctoritas” sulla base dell'anzianità, ma almeno non diventate reazionari chiedendo “la reistituzione del mos maiorum” che proprio voi avete correttamente contribuito a spezzare.
    Infine, perchè non sottolineare anche che senza crescita non avremmo tanti elementi oggettivamente positivi quali lo sviluppo tecnologico, lo sviluppo medico-sanitario, e che la crescita ha (inter alia) garantito l'aumento della speranza di vita degli individui?
    Un cordiale saluto,
    francesco manaresi

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