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Scritto da nel Economia e Mercati, Numero 50 - 16 Novembre 2008 | 0 commenti

Liberare l'individuo dalla catena della comunità -Parte II

Quando leggo i testi degli odierni teorici della decrescita ho spesso la sensazione che a fronte di un retroterra culturale estremamente interessante e provocatorio, grazie in particolare ai contributi di Georgescu-Roegen ed Illich, i risultati che ottengono siano enormemente limitati dal punto di vista del realismo e parzialmente pericolosi dal punto di vista politico ('parzialmente' solo perché è estremamente improbabile che essi siano ascoltati da molto di più di una ristretta cerchia di intellettuali). Cerchiamo di individuare prima di tutto i limiti teorico-pratici.
Se si volesse realmente “fermare la crescita” si affronterebbe in breve una improbabile crisi demografica senza precendenti. Serge Latouche suggerisce di riportare il PIL mondiale ai livelli degli anni '60-'70, quando l'impronta ecologica degli esseri umani avrebbe toccato la sua massima sostenibilità ecologica[1]. Allora la popolazione mondiale era pari a 3 miliardi di persone, oggi è superiore ai 6 miliardi: se ammettiamo (come appare probabile) che le risorse alimentari erano allora come oggi malamente distribuite e che esse avrebbero potuto sfamare almeno il 25% in più di popolazione se fossero state efficientemente allocate (una stima molto ottimistica), rimangono almeno 2 miliardi di persone “in eccesso”. Lo stesso Latouche non chiarisce quale sarebbe un metodo “conviviale” per selezionare quel quarto di popolazione che andrebbe fatta passare a miglior vita per garantire che tutti noi riceviamo una ciotola di riso al giorno (uso la prima persona plurale, anche se non so se sarei anche io tra i sacrificati, in quanto 'scettico della decrescita').
La lotta contro la “colonizzazione capitalistica dell'immaginario” ha portato poi i teorici della decrescita a considerazioni davvero interessanti: sempre Latouche afferma che la povertà estrema non è che una semplice “proiezione dei valori occidentali”. Sembrerebbe una battuta, ma alcuni sostengono realmente questa tesi. Credo che basti, a questo riguardo, osservare quanto sia incoerente far riferimento all'etica della difesa della produzione e riproduzione dell'esistenza di Hans Jonas come un principio oggettivo solo quando si tratta del pianeta Terra e di alcuni animali, mentre si rifiuta tale principio come metro oggettivo con cui valutare indicatori quali la speranza di vita alla nascita, le possibilità individuali (capabilities) ed altri indicatori oggettivi di espansione delle proprie capacità vitali. Se, d'altra parte, questi indicatori sono oggettivi, lo è anche la povertà misurata rispetto ad essi. Sembrerebbe che alcuni teorici della decrescita, come gli ecologisti della deep ecology abbiano una tendenza a discriminare gli esseri umani in favore delle altre specie viventi.
Non vi è traccia, nelle teorie della decrescita di una reale presa di coscienza degli impatti distributivi regressivi che la decrescita avrebbe sulle società. Dalla decrescita verrebbero a essere colpiti sostanzialmente i paesi più poveri, stante l'attuale equilibrio di poteri. Si potrebbe osservare che l'obiettivo del movimento politico per la decrescita è proprio quello di ribaltare l'attuale equilibrio dei poteri. Appare allora piuttosto incoerente che esso sia nato nei paesi sviluppati (Francia e Italia), e che attualmente si proponga di restringere il commercio internazionale e ritornare alla produzione autarchica partendo proprio da questi paesi, senza prima garantire che l'impatto di questa restrizione commerciale colpisca negativamente i paesi più svantaggiati. Al limite i “movimenti per la decrescita felice” dovrebbero proporre queste loro politiche solo a livello globale, poiché una qualsiasi loro implementazione su bassa scala sarebbe tutt'altro che “felice” per la gran parte dei poveri del mondo.
Tra le proposte politiche irrealistiche e limitate vi è la recente ipotesi avanzata da Serge Latouche di imporre un “controllo democratico” alla ricerca universitaria, forse sulla base di una visione quantomeno falsata delle teorie della “descolarizzazione” di Ivan Illich. Anche questa sembrerebbe una semplice boutade, ma l'intellettuale sembra essere improbabilmente serio quando avanza questa ipotesi, ed il timore che la sua proposta venga raccolta dai “movimenti per la decrescita felice” di Italia e di Francia è reale.
Fin qui potrebbe trattarsi solo di programmi utopici e, in alcuni casi, di divertissement a cavallo tra l'economia e l'etica. Ma sono le radici filosofico-politiche del pensiero sulla decrescita che possono essere considerate preoccupanti. Come sottolineano intellettuali come Cyril Di Méo[2] e Jean-Marie Harribey[3], è paradossale che la critica al capitalismo venga fatta spesso in nome del ritorno al passato. La magnificazione delle comunità tradizionali cancella con un colpo di ideologia più di cento anni di storiografia contemporanea che ha ricostruito i fenomeni di dominazione e di oppressione su base etnica, razziale, e censuaria presenti in esse. Ma la spinta ideologica che anima i teorici della decrescita si fa spesso tanto forte da renderli ciechi. Se la Terra non è un semplice pianeta, ma è un essere vivente (Gaia) superiore e dominatore dello spazio vitale umano, essa viene facilmente sacralizzata e l'ordine sociale viene reso ordine naturale. La stessa società tradizionale è un corpo vivente che viene colpito a morte dal capitalismo, come un cancro che ferisce la tradizione e la Natura. Da qui a dar vita ad una retorica reazionaria (nel senso definito da Hirschman[4]) il passo è breve. Si consideri il caso del fondatore del The Ecologist, Edward Goldsmith, che è arrivato ad affermare che l'ecologia debba fondarsi sulla fede[5] più che sulla scienza. Movendosi dalla critica della crescita, per toccare il concetto di sviluppo, sostenendosi con una lettura integralista della questione climatica, e rispolverando miti arcadici e spinte vetero-nazionaliste in campo economico e sociale, si arriva a toccare il capro espiatorio ultimo dei teorici della decrescita. Non si tratta del capitalismo, ma niente meno che dell'Illuminismo e della Ragione, colpevoli di aver imposto l'idea di progresso all'Umanità.
Può allora a ben ragione osservare Tom Brass[6] che i punti di contatto tra autori come Latouche e la “nuova destra” anti-modernista e anti-capitalista siano molteplici: le implicazioni reazionarie delle teorie della decrescita non devono essere sottovalutate. La questione può apparire paradossale, se si considera che la gran parte dei movimenti per la decrescita fanno riferimento in modo più o meno esplicito al movimento alter-mondialista, che si può definire di sinistra, ma credo che la precedente discussione abbia mostrato come il paradosso sia solo parziale[7].
Ad oggi non si tratta ovviamente di considerare queste teorie ed i suoi sostenitori come una “minaccia” di alcun tipo, quanto piuttosto di chiedersi quali possono essere le prospettive di una sinistra che si faccia ammaliare dalle sirene della decrescita e si autoreleghi al ruolo di sostenitrice di proposte reazionarie, irrealistiche, e sulle quali il consenso è ottenibile solo all'interno del convitto di alcuni intellettuali italiani e d'Oltralpe[8].
Le sfide della crisi economica mondiale, del riscaldamento climatico, e dell'uguaglianza sociale necessitano di idee fresche e di volontà ottimiste, ma adeguatamente vincolate dal “pessimismo della Ragione”. Non alla reazione, ma alla Ragione (quella dei Lumi) bisogna oggi più che mai rivolgersi per trovare una via fuori dalla crisi.



[1] Si tratta di stime altamente opinabili, ed al limite del pressappochismo, ma il tema della natura delle statistiche sull'impronta ecologica ci porterebbe inevitabilmente troppo lontano.
[2] La face cachée de la décroissance, La décroissance : une réelle solution face à la crise écologique ? (2006) L'Harmattan, Paris. (2006) L'Harmattan, Paris.
[3] Les théories de la décroissance: enjeux et limites, Cahier français « Developpement et environnement » n.337, pp. 20-26 (2007)
[4] Retorica reazionaria, retorica progressista, il Mulino, rivista bimestrale di cultura e politica, n.5 pp.835-854 (1993).
[5] Ecology as a faith,
[6] The agrarian myth, the 'New' Populism and the 'New' Right, The Journal of Peasant Studies, vol.24(4), pp.201-245 (1997).
[7] Né appare allora paradossale che in questo momento di crisi economica il movimento per la decrescita felice riprenda a parlare di “nazionalismo”: sulle prospettive autarchiche del commercio la sinistra della dècroissance trova un punto di contatto addirittura con le ipotesi più estremiste della nuova destra sociale. Si veda
[8] E' indicativo a questo proposito il fatto che la quasi totalità dei riferimenti bibliografici che si ottengono sul tema “decrescita” provenga da pubblicazioni italiane e francesi: queste teorie sono ad oggi sconosciute alla gran parte degli intellettuali del resto del mondo.

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