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Scritto da nel Internazionale, Numero 53 - 16 Gennaio 2009 | 1 commento

Gaza: la questione morale del nostro tempo





"Abbiamo sempre detto che l'isolamento di Gaza, sia attraverso i muri che attraverso i blocchi, sia attraverso l'embargo commerciale che quello relativo agli aiuti è un isolamento anche dell'Onu e della comunità internazionale. Non abbiamo più capacità operativa in vaste zone della Striscia. Di una cosa sono certo: l'isolamento politico di Israele aumenterà di pari passo con la durata di questa guerra.". Queste le dure parole di Chris Gunness, portavoce dell'agenzia umanitaria dell'Onu a Gaza.

In uno scenario da guerriglia urbana l'esercito di Israele utilizza anche ordigni a base chimica importati dagli Stati Uniti. E il resto del mondo che fa? Gli Stati Uniti sembrano in "pause", opinione pubblica concentrata sull'economia e sulla data del 20 gennaio, giorno dell'insediamento ufficiale di Barack Obama a Washington. E in attesa di Obama, l'Europa? L'Europa attraverso l'intervento ufficiale del suo presidente di turno, Nicolas Sarkozy, ha chiesto l'immediato cessate il fuoco, ma Israele è rimasta sorda alla richiesta, quanto mai decisa come questa volta nella sua "guerra santa" contro il nemico terrorista Hamas. La scorsa settimana sulle pagine del Corriere della Sera, il cardinal Martino ha azzardato un incauto paragone tra Gaza e un campo di concentramento, in questo caso allestito dagli Israeliani, riproponendo in qualche modo il rapporto tra Chiesa e Israele, che in questo momento non gode certamente di buona salute. Dunque, uno dei primi aspetti che emergono dal conflitto mediorientale è che le diplomazie ebraiche ed occidentali non sono al loro punto massimo di intesa. Basta fare un passo indietro per accorgersi e constatare che il rapporto tra Israele ed Europa non è mai stato poi così solido.

La vicenda storico-politico tra Europa e Israele non può essere analizzata in maniera distinta dalla Shoah. Per molti anni la Shoah non ha rappresentato in alcun modo un problema fondamentale nella vita intellettuale nel dopoguerra, sia in Europa che negli Stati Uniti. Solo a partire dagli anni '80 la storia dell'annientamento degli ebrei d'Europa, evocata dai libri, dal cinema e dalla tv, fu conosciuta da un pubblico sempre più ampio. A partire dagli anni '90 e con la conseguente caduta del muro di Berlino, le manifestazioni ufficiali di pentimento, i siti di commemorazione, i memoriali e i musei sono diventati sempre più frequenti. Tuttavia, tanto per fare un esempio, c'è chi come l'opinione pubblica polacca e romena, la parte più colta e cosmopolita di essa, si chiede come mai gli intellettuali occidentali siano più sensibili allo sterminio degli ebrei che alla sorte di altri milioni di vittime del nazismo e dello stalinismo, e si interroga sul perché questa singolarità della Shoah. Soltanto per i nazisti e gli ebrei la seconda guerra mondiale è stata innanzitutto un progetto finalizzato a distruggere il popolo ebraico; mentre per tutti gli altri ha avuto i significati più diversi: ognuno aveva i propri guai, e forse proprio questo concetto è difficilmente comprensibile dalle classi dirigenti israeliane, o per lo meno da parte di esse.
L'11 maggio 1949 lo Stato d'Israele fu ammesso alle Nazioni Unite quale suo cinquantanovesimo membro. Da allora, esso ha partecipato ad un'ampia gamma di operazioni, giocando un ruolo attivo. È il 1948 quando l'ONU dichiara fieramente l'intento di perseguire i principi e lo spirito dell'organizzazione che l'ha preceduta, la Società delle Nazioni, riconoscendo l'antico legame del popolo ebraico alla Terra d'Israele e decidendo la creazione di uno stato ebraico in Palestina. Per molti, rappresentò la realizzazione del sogno millenario del popolo ebraico, degli sforzi della diplomazia sionista e dei pionieri che in Palestina edificarono il focolare nazionale ebraico, per altri invece la nascita dello stato d'Israele risponde ai sensi di colpa della comunità internazionale che, alla metà degli anni quaranta, viene fuori da una guerra lacerante in cui il popolo ebraico è stato uno dei più, se non il più in assoluto, perseguitato. Il legame è evidente e va oltre l'atto giuridico con cui il 29 novembre 1947 l'Assemblea Generale stabilisce la creazione dello Stato ebraico. È una comunione di spirito e d'intenti. Gli slogan dei padri fondatori dello Stato non lasciano dubbi in merito. Per loro e per tutti gli uomini che li seguivano verso il traguardo nazionale, la ragion d'essere dello Stato d'Israele doveva essere quella di condurre il popolo ebraico nella Famiglia delle Nazioni, affinché potesse prosperare in uno spirito egualitario e potesse apportare il suo contributo allo sviluppo della democrazia. Israele è un punto fondamentale per ogni coscienza democratica, e il suo essere messo in discussione da Hamas, che tre anni fa ha vinto le elezioni, deve spingerci a capire se la questione e la battaglia sulla sua esistenza sia l'origine e la fine del tutto o se invece bisogna cambiare politica, approcciarsi alla questione israelo-palestinese con una politica reale, cioè affrontando le questioni senza quel carico emozionale che Israele porta con sé.

 

L'ingresso di Israele nell'Unione Europea è un tema politico spesso affrontato dai vari leader europei ma mai sviscerato fino in fondo, essenzialmente per due motivi. Il primo è che l'ingresso di Israele nella Ue rinsalderebbe sicuramente il rapporto tra i due partner ma allo stesso tempo, e qui arrivo al secondo motivo, una simile scelta significherebbe compromettere in maniera quasi irrimediabile il rapporto tra Europa e Islam, sarebbe compromesso il rapporto con quella fetta, non piccola, del mondo arabo, che ritiene Israele un'invenzione degli europei e per giunta imposta da questi ultimi all'interno del Medio Oriente. Nel mondo arabo la parola sionismo è sinonimo di colonialismo. Tutto ciò ovviamente non ha una facile via di uscita considerando anche il fatto che l'Europa non ha ancora quella forza politica che le potrebbe permettere, in casi come questi, di parlare con una voce sola: in Francia ed Inghilterra la grande presenza di comunità islamiche ha determinato nei fatti un peso sostanziale nelle decisioni governative, in Italia invece, osservando la storia più recente, abbiamo assistito ad una destra berlusconiana miope schiacciata sulla stessa linea della politica estera americana targata Bush, mentre la sinistra ha passato decenni ad innamorarsi del leader arabo di turno, vedi Arafat, senza tuttavia affrontare la questione da un punto di vista pratico, due popoli in due stati, concetto che deve essere affrontato senza contorni pregiudizievoli ed intellettualoidi come l'"allarme antisemitismo", lanciato ogni volta che qualcuno attacca Israele o difende i palestinesi. Oggettivamente, oggi l'esistenza di Israele non è messa in dubbio. E in Occidente, gli ebrei non corrono affatto il rischio di subire minacce o pregiudizi comparabili alle passate persecuzioni o a quelle che attualmente colpiscono altre minoranze.
Proviamo a rispondere alla seguente domanda/provocazione: potremmo oggi sentirci tranquilli, accettati, benvenuti, se fossimo musulmani negli Usa, marocchini in Olanda, romeni in Italia o rom in qualunque paese europeo? Non è forse più facile sentirsi al sicuro, integrati, accettati, se si è ebrei? È difficile avere dubbi sulla risposta. In Olanda, in Francia, negli Stati Uniti, e a maggior ragione in Germania, gli ebrei sono largamente rappresentati nel mondo degli affari, nei media e in campo artistico, e non rischiano in alcun modo di essere stigmatizzati, minacciati o esclusi. Tanto per intenderci, da quasi tutti i grandi gruppi editoriali l'attacco israeliano è stato raccontato in modo vergognoso: secondo la stragrande maggioranza delle persone gli israeliani hanno attaccato perché Hamas ha violato la tregua. E questa è una bugia. Il 4 novembre, i principali media, probabilmente impegnati con le elezioni americane, hanno ignorato un attacco di Israele contro un bersaglio di Hamas, considerato da alcuni palestinesi come la fine effettiva della tregua tra le due parti e come l'evento che ha preparato il terreno per l'attuale spargimento di sangue. Per rappresaglia, Hamas, il giorno seguente, lanciò 35 missili Qassam nel territorio israeliano i quali, per contro, fecero sì che si intensificasse severamente il proprio assedio economico, che durava da 17 mesi, sul territorio palestinese. "Quantunque nessuna delle due parti abbia completamente rispettato la tregua, il raid di Israele rappresentò decisamente la più grande violazione", ha affermato Stephen Zunes, un esperto della guerra israelo-palestinese dell'Università di San Francisco.
Nel frattempo a Gaza proseguono i combattimenti in periferia, le vittime sono più di mille e i bombardamenti aerei israeliani sui quartieri del centro hanno colpito anche il principale cimitero cittadino, nel quartiere di Sheikh Radwan. Aumentano le proteste e le denunce per la drammatica situazione della popolazione civile nella Striscia e le autorità israeliane impediscono ai giornalisti di entrare a Gaza per raccontare e filmare ciò che sta succedendo. Come ha detto nei giorni scorsi Ali Rashid (diplomatico palestinese) : "quello a cui assistiamo non è una guerra ma è la questione morale del nostro tempo".

1 Commento

  1. Cantelmi meglio di magdi…

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