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Scritto da nel Internazionale, Numero 53 - 16 Gennaio 2009 | 2 commenti

Gerusalemme: diario dell'atto primo

27 dicembre 2008

Arrivare a Gerusalemme nel pieno della notte, 4 ore prima che i razzi Israeliani colpiscano Gaza con la madre di tutti gli attacchi, lascia solo spazio all'immaginazione per un confronto tra la città in tempo di pace e la città con un quartiere in lutto e il resto ad armi spianate, aspettando il peggio.

Il quartiere arabo subito fuori la Porta di Damasco, appena Al Jazeera spara i video truculenti nelle case e nei negozi della gente, reagisce quasi all'unisono con un potente passaparola: sarà sciopero di tre giorni. Si chiudono le botteghe alle 12 di mattina, nella città vecchia il suk raccoglie paccottiglie, carni e spezie e si serra dentro se stesso. Una sola volta si era verificata questa forma di protesta: i primi giorni della seconda Intifada nel 2001, certo non proprio la rievocazione più promettente.

Al Jazeera, dice Luisa Morgantini (parlamentare europea da anni impegnata per la pace in questo Paese, una delle poche nel mio gruppo a capire la televisione araba), ha deciso di prendere per mano l'opinione pubblica e batte il ritmo dell'indignazione: quello che entrerà nelle case di tutti i Palestinesi e nel mondo arabo per i prossimi giorni sarà una accurata pornografia del sangue, dei moncherini di uomini, dei corpi carbonizzati, delle macerie di quattro pietre chiamate "case" e ora ridotte ad una sottosezione di quelle pietre, polvere fumante, palme incenerite. Quando la telecamera è appagata della distruzione oggettiva, passa a quella soggettiva, ai lamenti teatrali delle donne, agli urli di rabbia, alla concitazione di soccorsi improvvisati con macchine rimediate da un amico.

Un italiano poco altro può capire, ma le immagini -si sa- sono la penna del XXI secolo.

In una muta saldatura tra lo sciopero arabo e la domenica di festa cristiana, Gerusalemme vecchia è bianca e deserta, fatto salvo per gli ebrei ortodossi e le loro incalcolabili famiglie. Il gioco diventa contare i bambini che seguono una coppia di adulti, o inscatolati dentro una macchina – tetris da scuola elementare. Superata la poesia dei vicoli labirintici, si entra in una enorme area militarizzata. Ad ogni angolo pattuglie di quattro soldati ricordano ai passanti chi è il padrone, sui tetti – a ben guardare – stazionano quadrati cecchini, sulle scalinate Robocops mangiano un panino facendosi comicamente strada tra la visiera dell'elmetto e il microfono delle ricetrasmittenti, mitra a tracolla.

Parlano tanto le loro armi quanto le loro facce ai miei occhi. Le armi sembrano lo specchio della paura più che dell'arroganza: gli autobus sono stati cancellati per questi primi giorni, memento della realtà dell'Intifada per i cittadini israeliani; il traffico confusionario fuori dalla Porta di Jaffa impazzisce ad aggirare i blocchi improvvisati dalla polizia per proteggere le aree più sensibili della città, i grandi alberghi e centri commerciali; i turisti sono pochi e raramente organizzati.

Soprattutto, in questa mobilitazione di forze armate Israele rivela la propria incontrastabile umanità: i grappoli di divise verdi sono composti da ventenni brufolosi, di cui alcuni ricordano il compagno di scuola ciccione e scoordinato che il Governo ha avviluppato dentro una divisa, sbattendogli in mano un fucile. Se non fosse proprio per quei fucili portati in spalla come i nostri coetanei portano una chitarra, i posti di raduno sembrerebbero un campo scout: zaini da campeggio strabordanti appoggiati ai muri, scarpe da ginnastica lasciate a spuzzare all'aria aperta, due volontari distesi all'ombra a scrivere messaggi al cellulare o a ripassare grafici e appunti d'università, il resto a camminare in gruppetti per la città.

Sono queste le facce degli invasori di Gaza, altro che parà. Basta invece un fotogramma  per entrare nella natura più intima della complessità di Israele. Un ortodosso costeggia con espressione orgogliosa e severa l'assembramento di soldati. Incrociato lo sguardo di un giovane soldato, gli si fa incontro e gli stringe la mano con parole da cittadino affettuoso: considerato che gli ortodossi vengono spesso dispensati dal servizio militare per ragioni religiose, quanto quella gratitudine è giustificata! Quale saldatura di elementi sociali e culturali per noi così inaccessibile produce finalmente la politica di Israele?

In realtà, se si vuole stolidamente cercare un segno per le ragioni del perdurare di questa guerra, non se ne troverà uno né tra gli ebrei né tra gli arabi, troppo intenti a rilflettere e discutere intimamente dei propri destini futuri per venire a sbattere i propri pensieri sulla strada: un conflitto armato è una cosa seria, nessuno più di loro ne è cosciente. La città vecchia si è ritratta nelle proprie divisioni. secolari. La faciloneria della politica di guerra non può che sprigionarsi da chi non c'entra assolutamente niente: dai turisti.

Un gruppo di americani qualunque viene condotto sul più alto torrione della Torre di Davide, da cui si domina la città, vecchia e nuova: la loro guida, armata di kippah, non guarda la città vecchia dove stratificazioni di infinite conquiste e riconquiste potrebbero persino indurre a pensare la sovranità israeliana come una semplice fase storica, transeunte come ogni forma sociale e politica umana. La guida è molto più interessata, sicura di colpire nel segno, alle meraviglie della città nuova e molto più in particolare agli eroici racconti di guerra che hanno coinvolto quelle meraviglie architettoniche, ai leader internazionali che si sono avvicendati a "rendere omaggio" (sic) alla virtù militare israeliana, ai ricchi magnati che hanno deciso da oltreoceano di investire nel Grand Court Hotel di Gerusalemme, nei centri di conferenza e, là oltre le colline, in autostrade, industrie, università. Nessuna parola di politica, nessuna domanda ulteriore. Solo, un bambino sfoggia la sua nuova felpa: un caccia bombardiere e la scritta "America non temere, Israele è dietro di te".

Domani è un altro giorno?

2 Commenti

  1. Domanda: gli ebrei ortodossi che vengono spesso dispensati dal servizio militare per ragioni religiose appartengono allo stesso gruppo religioso di coloro che praticano le politiche di colonizzazione dei territori dei palestinesi?

  2. Potenzialmente sì, ma dipende da come il credo viene messo in pratica. L'ebreo ortodosso 'classico' è uno studioso dei Testi Sacri, è dispensato – per quanto ne so – dal servizio militare per un'estrema aderenza a principi, diciamo così, di ascetismo dalla modernità. Ciò non impedisce che alcuni gruppi ortodossi prendano alla lettera le Scritture, e sentendosi un po' come Mosé o i numerosi 'profeti guerrieri' della Bibbia, prendano le armi per un fine religioso. Attenzione, però: alcuni di questi gruppi colonici ortodossi rifiutano la sovranità dello Stato di Israele e il suo esercito, perché di origine secolare e non divina. L'uso della violenza è autonomo, e giustificato trascendemente e non si incrocia necessariamente con una struttura militare moderna.

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