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Scritto da nel Arte e Spettacolo, Numero 53 - 16 Gennaio 2009 | 0 commenti

I poeti che strane creature – Bar De Marchi

All'università, ma anche già al liceo, scrivevo poesie. Cantavo i fianchi delle mie compagne di scuola, niente di serio. Ma lessi l'Estetica di Benedetto Croce, dove si dice che tutti gli italiani, fino a diciotto anni, possono diventare poeti, ma dopo chi continua a scrivere poesie o è un vero poeta o è un vero cretino. Io poeta vero non lo ero, e cretino nemmeno. Ho scelto la via di mezzo: cantautore”.

È ormai unanimemente condiviso il valore eccezionale dell'opera di Fabrizio De André. A cominciare dalla sua ostinata resistenza a valori sociali degenerati, alla stupidità del senso comune, ma anche all'ingiustizia e alla miseria della condizione umana. Una resistenza, intellettuale e popolare insieme, non priva di una proposta: il tentativo perenne di veicolare un messaggio, la possibilità di una diversa convivenza tra gli uomini, basata su un rivoluzionario pensiero dell'amore. Altrettanto importanti sono le ricerche, anch'esse ostinate, nel magma della lingua italiana e nel mare delle tradizioni musicali. La parola di De André rappresenta uno degli ultimi esempi di esperienza poetica capace di espandersi e fecondare l'intera terra italiana e le sue genti, come un inesauribile e potentissimo polline. Non da meno è la sua esplorazione sonora, una totale apertura alle culture musicali (contro il ridicolo luogo comune secondo cui, musicalmente, le canzoni di De André sarebbero “ripetitive”), culture musicali inizialmente nostrane, la musica popolare da nord a sud, dal medioevo a oggi; ed in seguito anche straniere, dalle sonorità del profondo mediterraneo ai grandi cantautori.
È su quest'ultimo punto che ci concentreremo nella nostra prima “tappa” lungo la “Cattiva Strada”: i riferimenti cantautoriali di De André, così indispensabili per il suo percorso artistico ed esistenziale. Ancora più significativa, come vedremo, è la sua scelta originalissima di “tradurli”.

Brassens

Il ruolo che hanno avuto la musica e il pensiero di Georges Brassens è piuttosto noto. De André venne a contatto con le sue canzoni da giovanissimo (essendo la canzone francese piuttosto diffusa a Genova) e ne fu segnato a vita, influenzato alle fondamenta. Condividono il pensiero anarchico, quello vero, sicuramente utopico, di un'alternativa sociale, libera dal potere nelle sue forme più abiette (esemplare è la figura del Giudice), che entrambi hanno intravisto negli strati più disagiati della popolazione, nella famiglia dei miserabili e degli emarginati, capaci di una solidarietà più pura. “Fu grazie a Brassens, maestro di pensiero e di vita, che scoprii di essere un anarchico. Mi ha insegnato per esempio a lasciar correre i ladri di mele, come diceva lui. Mi ha insegnato che in fin dei conti la ragionevolezza e la convivenza sociale autentica si trovano di più in quella parte umiliata ed emarginata della nostra società che non tra i potenti”. Oltre a questo, condividono l'ironia geniale e pungente, la precisione fulminante della parola poetica, la visione estatica della donna come passante, l'amore per il vino. Sappiamo che De André non volle mai incontrarlo, dicendo di “temere di incrinarne il mito”… è bello anche pensare a una possibile paura di incontrare il proprio doppio, come uno specchio denso e stupefacente…qualcuno, certamente diversissimo, che è giunto a conclusioni affini e terribilmente profonde.

Dylan

Il rapporto con Bob Dylan è forse quello meno esplicito. Sappiamo tuttavia della profondissima ammirazione che De André nutriva per lui e possiamo riconoscere notevoli affinità stilistiche: soprattutto nell'uso di immagini fulminee sovrapposte e interconnesse, nella satira sociale che va dai personaggi dell'attualità a quelli storici e più in generale in un uso visionario, ambiguo ed evocativo della parola poetica (gli esempi migliori sono forse “Al ballo mascherato”, “La Domenica delle salme” e diverse parti del disco “Non all'amore, non al denaro né al cielo”). Esistono due aneddoti, uno curioso ed uno significativo. Il primo riguarda il periodo in cui un giovane Francesco De Gregori soggiornò all'Agnata (casa di De André in Sardegna), durante il quale i due, oltre a comporre diversi brani a quattro mani (e due teste), suonarono quotidianamente brani di Dylan (traducendone alcuni). L'altro riguarda Fernanda Pivano. La grande critica e conoscitrice di Letteratura Americana si oppose più volte al corrente luogo comune secondo cui De André fosse il Dylan italiano, sostenendone la profonda e isolata identità nonché la totale indipendenza artistica, arrivando più volte a considerare De André ben “al di là di Bob Dylan”.

Cohen
Cohen è stata una specie di infatuazione, non regge il paragone con gli altri”.

De André ascoltò per la prima volta Leonard Cohen nel '69. Fu uno di quegli incontri umani ed intellettuali destinati a lasciare il segno. Uno di quei rari ma fondamentali episodi nei quali in zone diverse della terra, al di là degli oceani, uomini lontanissimi creano immagini e sviluppano pensieri sorprendentemente vicini. Le affinità sono innumerevoli, a cominciare dalla dolorosa elegia degli umili e degli umiliati, passando per la religiosità laica e personalissima, fino a una comune e conscia necessità di solitudine e rifugio nel cuore sanguinante della poesia. Altro tema fondamentale è quello della donna: Nancy, Giovanna d'Arco, Suzanne (nonché la Jane di “Famous blue raincoat”), tutte figure ammalianti e familiari per De André (Marinella, Bocca di rosa, Jamin-a), quasi vittime sacrificali della delicatissima essenza femminile, splendide e offese immagini della Bellezza.

Allow me to express my respects to the memory of Fabrizio De André and my gratitude for our friendship in song”. L. Cohen


“…Chissà perché, mentre i nostri migliori poeti hanno ricevuto consensi nel tradurre i loro colleghi stranieri, per i cantautori invece questo tentativo, peraltro umile, di divulgazione di culture straniere diventa immediatamente sinonimo di inaridimento della vena poetica [...]
Spesso il traduttore deve andare per i fatti propri per cercare di interpretare l'animus di chi l'ha scritto, e a me qualche traduzione di Cohen, Brassens e Dylan è riuscita piuttosto bene…
”.


Decidere di tradurre questi tre grandi autori significa tantissimo. È sicuramente un'appassionante sfida, un gioco serissimo, del musicista e del poeta: portare in italiano i propri amori stranieri. È anche, come tutte le traduzioni letterarie, un “vivere per interposta persona” le esperienze, le immagini e gli amori di altri sentiti come fratelli (Dylan e Cohen) o come padri (Brassens). E poi ancora, e soprattutto, è un evidente (magari inconscio) tentativo di creare una sorta di alleanza, una “rete”, di unire con fili indissolubili i fautori di una resistenza intellettuale costruita nella canzone, nonché dare vita a una forma d'espressione cantautoriale quasi corale, sensibilissima e umana.


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