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Scritto da nel Internazionale, Numero 53 - 16 Gennaio 2009 | 0 commenti

Non solo Gaza: la pace e le colonie israeliane

Tra i tanti aspetti deleteri di una guerra c’è quello di catalizzare l’attenzione pubblica sull’immediato casus belli, per spiegare le ragioni del conflitto a partire dai fattori più contingenti. La concentrazione collettiva su Gaza e Hamas appare vagamente stucchevole e riduttiva delle multiformi facce dell’infinito conflitto israelo-palestinese: la riconduzione del perdurante fallimento del processo di pace attorno alla minaccia del radicalismo islamico contro una democrazia finisce per nascondere altri decisivi e controversi aspetti sottratti – per dirla diplomaticamente - all’opinione pubblica occidentale. Primo fra tutti, la realtà dei coloni israeliani nei Territori Occupati della Cisgiordania, ovvero: il fondamentalismo in chiave ebraica.

Secondo i dati dell’OCHA, l’agenzia delle Nazioni Unite specificamente focalizzata sul Coordinamento degli Affari Umanitari nei Territori Occupati, sono presenti più di 250.000 cittadini israeliani all’interno dell’area che gli Accordi di Oslo hanno designato come il cuore del territorio dello Stato Palestinese in Cisgiordania, senza contare i circa 130mila ebrei residenti nella disputata area di Gerusalemme. Lo stanziamento di comunità, villaggi e municipalità non si è mai fermato nemmeno in anni più recenti ed ha assunto un peso specifico dirimente per la politica d’Israele verso la controparte palestinese: anzi, in casi notevoli l’ha condizionata in modo decisivo.

Come nel caso dell’erezione del famigerato Muro che corre ad oggi per 409 km non solo lungo il confine accordato con la West Bank, ma anche – e qui il punto legalmente rilevante condannato dalla Corte dell’Aja nel 2004 – all’interno di questo, per proteggere le colonie da attacchi terroristici, di fatto annettendo sostanziali spicchi di territorio palestinese. Per la sicurezza ed il benessere delle colonie sparse nella Cisgiordania, l’esercito israeliano dispiega inoltre decine di migliaia di uomini per circondare militarmente aree in territorio de jure straniero, porre blocchi stradali e severe limitazioni alla libera circolazione dei cittadini palestinesi attraverso check-points sulle strade della Cisgiordania (558, secondo l’ultimo rapporto OCHA). Le implicazioni di questa politica israeliana sono devastanti.

Con il dispiegamento di militari all’interno dei Territori Occupati si impedisce in pratica che si consolidi la sovranità dell’Autorità Palestinese su di una miriadi di spicchi di quella terra, ponendo dunque un ostacolo insormontabile per il processo di pace: nessun capo di governo palestinese, Fatah o Hamas che sia, potrebbe mai accettare un definitivo assetto “maculato” del proprio stato. Perché allora il Governo israeliano, conscio degli effetti sul processo di pace, non è mai riuscito a prendere di petto questa enorme questione in Cisgiordania?

I coloni rappresentano uno spaccato della società israeliana che agli occhi occidentali sfuggono per l’enorme complessità delle dinamiche sviluppatesi nella cultura politica ebraica degli ultimi decenni e per la nostra superficialità nel trattare lo Stato d’Israele come una monolitica “scatola nera”, un Paese economicamente sviluppato di stampo tipicamente Occidentale su cui non c’è null’altro di rilevante da sapere se non che si trova in una critica situazione geo-politica. Al contrario: scendendo alla vera radice del dominio culturale e sociale israeliano, le forme dell’ebraismo nel XXI secolo risulteranno sorprendentemente molto più lontane dal modello occidentale di quanto i semplici aspetti economici e la superficiale cornice istituzionale possano mostrare.

Alcuni di questi gruppi colonici – come nell’area di Hebron, sud-est di Gerusalemme – sono ebrei ultra-ortodossi (Haredim), mossi a stabilirsi in Terra Santa dalla convinzione che questa sia la terra promessa da Dio al popolo di Davide. Se il fondamentalismo islamico vede gli Ebrei come un popolo alieno ed invasore da annientare, esiste anche un fondamentalismo ebraico convinto – sull’esempio delle bibliche guerre dei patriarchi contro le tribù stanziatesi in Palestina – che gli Arabi debbano semplicemente essere cacciati dal territorio ebraico. Quando il diritto divino entra in gioco nessuna soluzione umana è possibile. Ci sono poi coloni ispirati da un più secolare nazionalismo ebraico, sospinti ad infiltrare progressivamente il territorio palestinese per la finale realizzazione del sogno sionista della Grande Israele: le idee rappresentate politicamente dalla Destra di Netanyahu, probabile vincitore alle prossime elezioni.

Non bisogna infine dimenticare che le più recenti ondate immigratorie verso Israele sono composte da ingenti gruppi di ebrei provenienti dagli stati estremamente poveri, a partire dall’Europa dell’Est fino ad arrivare allo Yemen o all’Etiopia: per i nuovi arrivati, il ritorno in Israele è la garanzia di una casa a basso costo e lavoro sovvenzionato dallo Stato, in particolare proprio nelle colonie. La questione assume contorni da “guerra fra poveri”, un gioco a somma zero: chi vince prende tutto.

Da un punto di vista strettamente economico, la quantità di investimenti edilizi ed imprenditoriali da parte di nuovi ricchi ebrei – russi, ad esempio – è facilmente immaginabile. Laddove poi interessi economici si saldano con il fervore nazionalista o religioso subentra un fattore politico molto più comprensibile: i coloni votano, e costituiscono un crescente bacino elettorale che nessun partito si può permettere di trascurare, a maggior ragione in un sistema partitico altamente frammentato come quello israeliano. I dubbi orientamenti strategici delle élites politiche israeliane riguardo alla desiderabilità di una definitiva risoluzione della questione territoriale con la Palestina creano, in un’ultima istanza, un’inerzia per molti versi irrisolvibile senza un intervento esterno.

Insinuare l’idea che la pace tra Israele e Palestina passi solamente da Gaza, Hamas, l’assurda sfida al conteggio dei morti e altre banalità dominanti in questi giorni appare il massimo esempio di strumentalizzazione del conflitto ai fini delle diatribe strategiche ed ideologiche nei Paesi Occidentali. A chi sta a cuore la normalizzazione della vita in quei territori come fine in sé, non resta che prendere atto dell’insopprimibile umanità che impregna il conflitto ed addentrarsi nelle sue pieghe per raggiungere non solo una pace perpetua, ma soprattutto una pace dignitosa. Per tutti.

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