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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 53 - 16 Gennaio 2009 | 0 commenti

Odi (in musica) alla povera gente

Non vi è pensatore che non abbia talvolta contemplato le magnificenze dell'infimo.
Victor Hugo

Se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo.
Fabrizio de Andrè


Non è certo la musica l'unica arte ad essersi occupata dei miserabili o dei peccatori, perché da sempre, laddove vi sia sofferenza umana, l'artista può trovare materiale più ricco per le proprie creazioni. Eppure, nel solo caso della musica, il rapporto d'amore tra intellettuale e poveraccio ha la possibilità di essere più immediato, diretto e reciproco. Per apprezzare un libro bisogna quantomeno saper leggere, per comprendere appieno un quadro può essere necessario conoscerne il contesto culturale; persino alcuni capolavori del cinema, forma d'arte pure nata popolare, richiedono concentrazione mentale e abitudine al particolare alfabeto del linguaggio visivo.
La musica è diversa. Ho fatto ascoltare Mozart a persone di ogni età ed estrazione sociale, e nessuna differenza individuale, di ceto o di nazionalità, ha potuto mutare l'identico, incantato stupore con il quale si presta orecchio, anche se distrattamente, a quella che nel bel film Amadeus veniva definita “la voce di Dio”. Immagino che all'alba dei tempi, come oggi, il canto non abbia richiesto nessuno strumento particolare, né una penna né uno scalpello, ad eccezione del proprio corpo: leggero, l'uomo scopriva di potersi librare a volo come gli uccelli. Da allora, non occorre talento musicale per riconoscere ciò che è bello: la capacità di amare una melodia è insita nell'uomo, in qualsiasi uomo. Per questo la musica, a mio parere, è l'arte più pura e universale.
I musicisti, dal canto loro, hanno ripagato il popolo interessandosene, e Fabrizio de Andrè, che l'Arengo omaggia nel decimo anniversario dalla morte, è senz'altro uno di questi. Grazie a lui nessuno potrà scordare Bocca di Rosa, che in fondo altro non era altro che una puttana, o il povero Piero o persino Ninetta, che in fondo non erano altro che un milite ignoto e la sua donna. I personaggi che, ne Il Testamento, attorniano un moribondo, sono rapidi ritratti delle meschinità umane. Persino il leggendario Carlo Martello ci viene restituito in un momento di maschil debolezza; Marinella è soltanto una stupida ragazzina innamorata. Ne La canzone dell'amore perduto, è indimenticabile l'affresco finale di quella “prima che incontri per strada”, simbolo dolorosissimo della banalità delle ragioni per cui a volte può nascere anche il sentimento più sublime. Ne La città vecchia, poi, li ritroviamo tutti quanti riuniti: la bambina già segnata dal destino, gli alcolizzati che giocano a carte, il borghese benpensante con la passioncella per le donne a pagamento. Non era certo fantasia, perché questa è la realtà nemmeno troppo nascosta di ogni bassofondo, per chi abbia la voglia di andare a curiosare.
Per ricordare “Faber” abbiamo scelto la nostra cara Via del Pratello, che crediamo, più di ogni altra strada a Bologna, sia ancora rappresentativa della poesia degli ubriaconi, dei filosofi squattrinati e dei pezzenti. Se camminate per Via del Pratello, persino nella notte di Natale, potrebbe capitarvi di incontrare la mia amica M., che aspetta a un angolo della strada qualche cliente, vestita di un pellicciotto e a polpacci nudi, nonostante il freddo e i suoi annetti sulle spalle. M. ha modi di fare quasi eleganti, racconta di essere stata nobile, le piace disegnare, si dice una fervente cristiana; nulla di strano, nemmeno quando, in osteria, senza mutande, talvolta alza una gamba all'indietro e ride di gusto, perché sa che quegli stessi occhi di studenti più o meno ammodo che la dileggiano apertamente, si posano poi, distrattamente e in segreto, dove non vorrebbero mai ammettere. E giuro io, che ho visto ragazzi giovani guardarla con desiderio. D'altra parte non starebbe in strada, se non ci fosse lavoro, anche se è la sera di Natale.
Orrore per le anime sensibili, Wolfgang Mozart, come si sa, terminò la sua sorte terrena in una fossa comune; ma pensandoci bene, non vi è nulla di più popolare di questa fine. Si dice che i morti che non hanno avuto degna sepoltura continuino a vagare inquieti: così immagino Amadeus che, privo di pace, canta e balla ancora sul nostro mondo, decidendo il gusto di due secoli di generazioni, incoronandosi primo tra i primi, mentre il suo corpo, privo di una bara, ha nutrito la terra da cui è nata tutto la musica occidentale a venire: nell'estrema promiscuità risiede forse il destino di essere venerati in modo universale. Così forse anche la mia amica M., con le sue decine o magari centinaia di amanti di una notte, può aver lasciato qualcosa di se stessa in ciascuno di loro, cambiando impercettibilmente i gusti e la personalità di un'intera città che ha dormito con lei. Allora i cantautori grandissimi come Fabrizio de Andrè hanno scelto bene l'humus da cui attingere: è la povera gente e non l'élite che mette in gioco il proprio corpo e il proprio sangue, e sua sarà la rinascita dalla polvere, suo è il futuro.

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