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Scritto da nel Numero 55 - 16 Febbraio 2009, Politica | 0 commenti

Il trade-off tra controllo e regolarità

In questo articolo mi limiterò a una riflessione sugli sviluppi della normativa in tema di immigrazione.

L'argomento trova pochi riferimenti nella Costituzione italiana del 1948 (d'altronde eravamo un paese di emigranti), che si limita a garantire il diritto di asilo (art. 10), il diritto all'emigrazione (art. 35) e che nel recente aggiornamento 'federale' riserva allo Stato nazionale la legislazione esclusiva (art. 117). A fronte di questi essenziali principi, dagli anni Novanta a oggi il tema immigrazione è assurto a motivo di scontro politico con il conseguente florilegio legislativo.

In Italia la prima legge organica che si propone di regolare le politiche di accesso nel nostro Paese dei cittadini stranieri è del 1990 e porta il nome del Vice Presidente del Consiglio socialista Claudio Martelli.
All'art 2 introduce il concetto di programmazione dei flussi in funzione delle esigenze dell'economia nazionale e delle reali possibilità di integrazione, “… vengono definite entro il 30 ottobre di ogni anno la programmazione dei flussi di ingresso in Italia per ragioni di lavoro degli stranieri extracomunitari e del loro inserimento socio-culturale, nonché le sue modalità, sperimentando l'individuazione di criteri omogenei anche in sede comunitaria. Con gli stessi decreti viene altresì definito il programma degli interventi sociali ed economici atti a favorire l'inserimento socio-culturale degli stranieri, il mantenimento dell'identità culturale ed il diritto allo studio e alla casa.”
All'art. 4 comma 8 stabilisce il principio dell'autosufficienza economica: “Il rilascio del primo rinnovo del permesso di soggiorno è subordinato all'accertamento che lo straniero disponga di un reddito minimo pari all'importo della pensione sociale. Tale reddito può provenire da lavoro dipendente anche a tempo parziale, da lavoro autonomo, oppure da altra fonte legittima.”

All'art. 7 prevede l'espulsione dal territorio dello Stato per “gli stranieri che violino le disposizioni in materia di ingresso e soggiorno, oppure che si siano resi responsabili, direttamente o per interposta persona, in Italia o all'estero, di violazione delle disposizioni fiscali italiane o delle norme sulla tutela del patrimonio artistico, o in materia di intermediazione di manodopera nonché di sfruttamento della prostituzione o del reato di violenza carnale e comunque dei delitti contro la libertà sessuale.”
Il punto debole della legge, tipicamente italiano, risiede nell'effettiva applicabilità di tale sanzione: l'espulsione viene eseguita dal questore “mediante intimazione allo straniero ad abbandonare entro il termine di quindici giorni il territorio dello Stato secondo le modalità di viaggio prefissato o a presentarsi in questura per l'accompagnamento alla frontiera entro lo stesso termine.” Questo rendeva difficile l'efficacia delle attività di controllo delle forze dell'ordine

Dunque, la bontà dei principi stabiliti nella legge si scontrano con l'effettiva difficoltà di eseguire le espulsioni mediante decreto ingiuntivo.

Le difficoltà di gestione degli imponenti flussi migratori rende pertanto necessario il varo della Legge 40 del 1998, la cosiddetta Turco-Napolitano, che a tal fine introduce i Centri di Permanenza Temporanea, con l'obiettivo di rendere efficace l'applicazione dei decreti di espulsione: tale strumento consente alle autorità amministrative di ridurre il rischio di fuga dei soggetti colpiti da decreto di espulsione.

L'ultimo giro alla vite è quello della legge 189 del 2002, la “Bossi-Fini”, che interviene rendendo più difficile il rilascio dei permessi di soggiorno per lavoro: solo tramite un contratto di lavoro è possibile soggiornare regolarmente nel nostro Paese. Come sa un maldestro meccanico, a girare troppo la vite si ottiene il risultato di spanare la filettatura nella quale alloggia.

Il punto chiave nell'elaborare una politica di controllo dell'immigrazione sta nel comprendere che esiste un trade-off tra controllo dei flussi e regolarità degli stessi. Per capirci: se la norma consentisse l'ingresso a tutti imponendo solo la registrazione e l'elezione di un domicilio, sarebbe facile supporre che allo Stato sarebbero noti tutti i nomi e le identità delle persone presenti sul territorio nazionale; viceversa, se si ritenesse che solo l'adempimento di svariate e difficili formalità burocratiche renda possibile la regolarizzazione, vedremmo sempre meno stranieri presentarsi regolarmente in quanto tale 'regolarità' sarebbe di fatto resa più difficile: come spesso le normative fiscali inducono all'evasione per le oggettive difficoltà a rispettarle, altrettanto fa la Bossi Fini verso gli stranieri immigrati.

Subordinare la possibilità di richiedere il permesso di soggiorno all'iscrizione alle liste di collocamento presso i nostri Consolati all'estero, rende difficile da un lato l'ingresso a chi desidera farlo per trovarsi un lavoro, dall'altro, simmetricamente, alle nostre imprese la selezione del personale. È un limite sia alla libertà personale che allo sviluppo economico.

Domanda: non avrebbe senso tornare allo spirito originario della normativa? Non sarebbe meglio consentire un accesso temporaneo, regolare, con lo scopo di ricercare il lavoro e procedere all'allontanamento solo verso chi si trovasse sprovvisto dei regolari mezzi di sussistenza? Che senso ha impedire l'ingresso a chi si può permettere il soggiorno? Qual è il nostro obiettivo di policy: godere nell'essere cattivi con i clandestini o essere felici perchè viviamo in pace?

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