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Scritto da nel Economia e Mercati, Numero 60 - 1 Giugno 2009 | 2 commenti

Dalla derivata seconda di Brunetta all'alfabeto della recessione

Dalla derivata seconda di Brunetta all'alfabeto della recessione

La scena è memorabile: la conferenza stampa sta per finire, il Ministro Brunetta ha presentato il suo progetto di riforma della pubblica amministrazione, approvato dal Consiglio dei Ministri. Brunetta è raggiante, come lo è Berlusconi alla sua destra. I giornalisti hanno fatto le loro ossequiose domande e domani titoleranno entusiasti del “birichino” Brunetta e della sua rivoluzione. Ma ecco che un'ombra viene gettata sulla giornata di festa: “Presidente, ci sarebbe questa cosa del PIL…” dice timido un giornalista “Sì insomma, è caduto del 5.9%, non è mai successo da 30 anni…”. Ma Berlusconi lo blocca subito: lo sappiamo, ma c'è da essere ottimisti perché come dice Brunetta… “E' la derivata seconda che conta!” chiosa il Ministro “Il tasso di peggioramento si è ridotto, gli indicatori per i mesi futuri ci mostrano una ripresa che ci porterà fino allo 0% e poi al segno positivo!”.
Grandi risate, pacche sulle spalle, e tutti a festeggiare: ancora una volta i giornalisti italiani sono stati conquistati dal sorriso di Silvio e dall'arguzia del Ministro della Pubblica Amministrazione.
Spente le luci, e finito il teatrino c'è da chiederci se esiste un barlume di giustificazione per l'ottimismo di Brunetta e di Berlusconi, aldilà della volontà di tranquillizzare i consumatori e (soprattutto) gli elettori che potrebbero cominciare a chiedersi che cosa effettivamente il Governo stia facendo per contrastare la recessione. Dopo che il nostro PIL si è ridotto di quasi il 6% nel primo trimestre 2009, che cosa dobbiamo aspettarci per il resto dell'anno? Guardiamo innanzitutto a cosa ci dice l'esperienza economica passata.

In economia si distinguono generalmente 3 diversi tipi di recessione, ognuno definito con una lettera dell'alfabeto: V, U, e W. Una recessione a V è caratterizzata da una caduta forte e marcata degli indicatori macroeconomici che raggiungono rapidamente il loro livello minimo. Da questo livello però essi risalgono in breve tempo e l'economia riprende a crescere al suo tasso naturale. Due buoni esempi di recessione a V sono le recessioni del 1991 e del 2001 negli USA, entrambe sono durate circa otto mesi.
Una recessione a U rappresenta uno scenario un po' peggiore: il rallentamento dell'economia è meno improvviso, ma la situazione rimane negativa per un periodo più lungo. Un esempio è dato dalla recessione dei primi anni '70, in cui la disoccupazione rimase a livello elevato per lungo tempo.
La recessione a W rappresenta un tipo di crisi ancora più problematica: la recessione si presenta con una forma a V, ma proprio quando gli indicatori appaiono migliorare vi è una seconda ondata che comporta un'ulteriore contrazione dell'economia.
Questo è un caso in cui l'ottimismo berlusconiano non solo non serve a molto, ma può risultare dannoso. È infatti sulla base dell'ottimismo che molti investitori cominciano a scommettere sulla ripresa quando l'economia ha raggiunto il suo livello più basso. E la loro scommessa genera effettivamente un miglioramento del tasso di crescita del PIL, è un caso di aspettative che si autoavverano. Ma in breve i dati dell'economia reale mostrano quanto questo ottimismo sia immotivato: la recessione torna a colpire e gli investimenti fatti si trasformano in perdite secche.
Nel caso delle recessioni a W, insomma, il primo miglioramento è solo uno specchietto per le allodole, la derivata seconda del Ministro è positiva, ma invertirà il suo segno in breve tempo.
Quale sarà dunque il nostro futuro: a V, a U, o a W?

Purtroppo ci sono diversi fattori che non dovrebbero farci stare troppo tranquilli, si tratta di elementi che investono l'intera Europa prima ancora che la sola Italia.
In primis le perdite delle banche: l'ultima stima del FMI prevede che nel periodo 2007-2010 le perdite per le banche europee saranno pari a 1.200 miliardi di dollari, poco più di quanto stimato per gli USA (1.050 miliardi). Il problema è che mentre le banche americane hanno già accertato la metà delle loro perdite, quelle europee ne hanno contabilizzato solo 260 miliardi. L'Europa si trova dunque ancora a meno di un quarto del guado. Più che a nuovi fallimenti (che sono improbabili data la quantità di moneta che è stata immessa nel sistema) è probabile che questa situazione porterà a prolungare ancora a lungo la stretta creditizia in Europa, ed in Italia in particolare.
Vi è poi la questione dell'Est Europa: molte imprese italiane stanno soffrendo della crisi che ha colpito i nuovi Paesi Membri della UE, dove i nostri capitali si erano diretti fin dalla seconda metà degli anni '90 con investimenti diretti nel tessile, nelle costruzioni, e nel settore bancario e finanziario. La crisi in Europa Orientale sta raggiungendo proporzioni bibliche, con ricadute sociali ed economiche anche per il nostro Paese che è sempre più integrato con queste economie.
Sul fronte interno la situazione non è migliore: se anche le previsioni sulla produzione industriale mostrano una timida ripresa, quelle sulla disoccupazione cadono a precipizio. Non è chiaro come si possa rilanciare stabilmente l'economia con una domanda interna strangolata dalla disoccupazione e con una domanda estera che è in caduta libera in tutti i nostri principali partner commerciali.
Infine c'è il problema del debito. L'Italia ha perso ormai da anni la sovranità monetaria e dunque il finanziamento del deficit pubblico è affidato principalmente alla vendita di titoli sul mercato aperto. Finora il nostro Governo è riuscito a vendere i suoi titoli di debito con relativa facilità, ma le cose si stanno facendo sempre più difficili. Il rischio è che non si trovino sufficienti acquirenti per i titoli di debito prodotti e non si possa finanziare così i deficit di bilancio.

Proprio questo è il grande cataclisma che potrebbe generare la forma a W della nostra crisi: se i titoli di Stato non riuscissero più ad essere venduti, gli investitori perderebbero fiducia nella capacità del Governo di salvare il sistema finanziario. Il risultato sarebbe una fuga di capitali ed una nuova crisi bancaria e monetaria.
Se anche queste prospettive fossero troppo pessimistiche, è improbabile che, date le condizioni attuali, la ripresa sia forte e stabile. La crisi nella domanda interna ed estera, e le perdite bancarie che devono ancora essere sufficientemente “digerite”, nonché la crisi di produttività che caratterizza l'Italia da oltre 15 anni, fanno presagire una timida ripresa seguita da una sostanziale stagnazione.

Un recente editoriale del Financial Times, a firma di Gillian Terri, ha fornito una rappresentazione grafica a questa previsione. Il simbolo che appare qua sotto non è una lettera dell'alfabeto latino, ma fa parte dell'alfabeto delle abbreviazioni elaborato da Pitman e, ironia della sorte, il suo significato è “banca”.

Come garantire che la ripresa non sia dello stile “banca”? Non sarà semplice, considerando che le risorse pubbliche sono vincolate dalle difficoltà nel vendere i titoli di debito. L'obiettivo deve comunque essere quello di sostenere i consumi attraverso adeguate reti di sicurezza sociale (i famosi ammortizzatori). Accanto a queste politiche pubbliche, è fondamentale operare delle riforme strutturali al sistema economico italiano. Non tanto (o non soltanto) la riforma pensionistica, la cui necessità è stata riaffermata recentemente dal Governatore della Banca d'Italia, quanto garantire un nuovo dinamismo all'economia attraverso la riduzione dei privilegi degli ordini professionali, la lotta all'eccessiva concentrazione del potere di mercato (cosa assai difficile con questo Governo, considerando che si tratterebbe in molti casi di andare a ledere gli interessi delle aziende dell'attuale Presidente del Consiglio). Infine, una politica industriale che spinga le aziende a innovare ed investire in ricerca e sviluppo, individuando settori strategici in cui concentrare gli sforzi.
La crisi deve essere per l'Italia l'occasione per rilanciare la sua competitività: il solo ottimismo di Brunetta potrebbe non salvarci dal declino.

2 Commenti

  1. Esiste un precedente storico di una crisi a W?

  2. L'esempio da manuale è quello degli USA nel triennio 1980-82: l'economia entrò in recessione nel secondo trimestre del 1980, la recessione durò fino all'inizio del primo trimestre 1981, con un tasso di decrescita inferiore all'1%. Dopodichè il 1981 fu un anno di crescita, ma il 1982 vide ancora una volta l'economia crollare, con una caduta superiore al 2% su base annua.
    Si dice che anche la recessione del 1930 abbia avuto un andamento a W nell'arco del decennio, ma ammetto di non avere le serie storiche per verificarlo.
    Tra i fattori che favoriscono una forma a W vi è un errore di politica monetaria: ai primi segnali di ripresa si opera una stretta sul costo del denaro per evitare lo scoppio dell'inflazione. Ma i segnali di ripresa erano una rondine, non la primavera, e la stretta monetaria strangola ulteriormente l'economia.

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