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Scritto da nel Il Mondo nel Pallone, Numero 60 - 1 Giugno 2009 | 0 commenti

Gli Stati del pallone

Non è un caso se la finale di Champions League quest'anno ha visto confrontarsi una squadra spagnola e un team inglese e se in Coppa Uefa in finale siano giunte una squadra tedesca e una ucraina. Se negli ultimi anni Spagna e Inghilterra sono ai vertici del calcio europeo e mondiale e l'Italia invece appare in rapido declino, ci sono ragioni non solo strettamente sportive.

Il primato anglo-spagnolo deriva anche dal modo di intendere il calcio e dall'organizzazione societaria di cui si sono dotate le due realtà (potremmo discutere anche del nuovo corso tedesco e dei paesi emergenti come appunto l'Ucraina, ma è meglio soffermarsi su Spagna e Inghilterra). Il calcio inglese da anni ormai ha scelto un'organizzazione “business-oriented”, votata alle leggi di mercato: proprietà degli stadi e ottimizzazione economica degli stessi, politiche di marketing e di merchandising efficaci, quotazione in borsa e conseguente attenzione ai bilanci.

Le società inglesi hanno un doppio livello di gestione: hanno un amministratore delegato e un consiglio di amministrazione che cura gli interessi economici e che delega l'aspetto sportivo ad un secondo livello dirigenziale, con allenatori che sempre più spesso sono manager sportivi a 360 gradi. L'organizzazione, insieme alla filosofia sportiva inglese, ha fatto sì che oggi le squadre di Sua Maestà possano avere nelle proprie fila i giocatori più forti, attratti dalla bellezza del calcio inglese, da schemi votati all'attacco, dalla lealtà e dalla quasi assenza di polemiche, dai soldi, da un regime fiscale favorevole e dal modo più sereno di intendere il calcio.

Il calcio spagnolo ha scelto invece un modello latino. La maggior parte delle squadre iberiche infatti ha un'organizzazione basata sul consenso e sulla partecipazione. I presidenti di Barcellona e Real, per esempio, vengono votati dai soci del club , che sono migliaia. Le elezioni del presidente e del direttivo societario rappresentano il culmine della vita del club. E non solo, il metodo “comunitario” presuppone anche forme di controllo sulla gestione societaria. Questo sistema, legato a politiche economiche che consentono forti ricavi attrae anch'esso le stelle del calcio, favorite tra l'altro da una tassazione ridicola dei propri cospicui stipendi.

Ecco quindi il punto. In Italia non si è scelto un modello, ma si continua a giocare con squadre gestite da presidenti-tifosi . Le prime tre squadre del campionato hanno passivi da capogiro, non c'è una chiara e univoca politica degli stadi, sul merchandising si è lontani anni luce dai competitors europei. I nostri presidenti somigliano ancora all'Alberto Sordi del Borgorosso. Essi trattano le squadre come dei giocattoli personali, compiendo investimenti e scelte che sembrano determinati più da capricci personali che da precise scelte di carattere economico-sportivo. Per cui oggi ci troviamo con la squadra che ha vinto il Campionato, l'Inter, con un passivo di 183 milioni di euro e con due allenatori (Mourinho e Mancini) stipendiati ( per una spesa annua che si aggira intorno ai 25 milioni di euro).

I mali del calcio italiano derivano quindi molto dalle fondamenta. Ma nel nostro paese si preferisce ancora puntare il dito sul mondo ultras e sulle sue devianze, senza capire che il calcio si cambia se cambia il sistema di riferimento. Modello anglosassone o modello latino? Forse, per come il calcio è inteso in Italia, il modello latino potrebbe coinvolgere le energie in progetti costruttivi non solo per le grandi squadre ma anche e soprattutto per le realtà più piccole. Partecipazione, trasparenza, elezione del presidente: un modello forse al momento utopico, ma affascinante e che merita sostegno. Perché senza una svolta decisa, il calcio italiano, ormai già declassato, rischia un tracollo quasi definitivo a livello europeo.

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