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Scritto da nel Economia e Mercati, Numero 62 - 1 Agosto 2009 | 0 commenti

Uomini e caporali

Il giornalismo di inchiesta sta conoscendo una rinnovata fortuna nell'editoria italiana. Dopo il fenomeno-Saviano, che ha portato al centro del dibattito pubblico la realtà della camorra campana, ha trovato spazio una nuova generazione di giovani giornalisti-scrittori, che hanno raccontato le facce più oscure del Belpaese nel terzo millennio. Ne è un ottimo esempio il talento di Alessandro Leogrande, che in “Uomini e caporali” racconta la nuova Italia degli schiavi. È un'Italia che abita proprio accanto a noi, con cui ci relazioniamo direttamente o indirettamente ogni giorno. Ma è anche un'Italia che cerchiamo sempre di ignorare, che tutti noi fingiamo non esista e di cui neghiamo le nostre responsabilità.
L'Italia di Leogrande si muove nei campi della Puglia, nel Tavoliere, in quella regione che da secoli l'uomo ha addomesticato o tentato di addomesticare per le sue colture. Là negli ultimi quindici anni si è venuto consolidando un sistema di sfruttamento della manodopera migrante, uno dei centri del nuovo schiavismo globale.
In Puglia oggi la quasi totalità della produzione agricola si basa sul lavoro degli immigrati, portati sui campi a raccogliere pomodori o altri frutti della terra per paghe irrisorie (circa 3 euro e 50 centesimi l'ora). La loro vita è nelle mani dei loro aguzzini, che con un nome antico vengono chiamati "caporali", che li sottomettono con la violenza ed i raggiri, li fanno vivere in casolari sovraffollati come animali ammassati in una stalla, e che sottraggono quotidianamente gran parte delle loro misere paghe.

Le origini degli immigrati sono diverse, ma sempre vi è una nazionalità che è dominante. Nella prima metà del nuovo decennio tanti erano polacchi, mentre negli anni Novanta del secolo scorso erano perlopiù maghrebini, ed ora i polacchi sembrano venir sostituiti dai romeni. Verso ciascuno di questi paesi si è creata una catena di istituzioni mirate allo sfruttamento dei lavoratori. Vi sono agenzie per il lavoro che organizzano viaggi stagionali verso l'Italia promettendo di poter lavorare per una paga che è spesso molto superiore a quella offerta nel paese di origine. Giunti in Italia, gli immigrati sono presi in consegna dai caporali e quindi sottomessi alla loro volontà con l'unica rischiosa alternativa della fuga. Motore economico di questo processo sono i proprietari italiani, senza scrupoli nel concordare con i caporali la forza lavoro necessaria ad un costo irrisorio.
Questa realtà è venuta alla luce solo nel 2006, quando due studenti polacchi scappati dall'inferno in cui erano finiti hanno deciso, per la prima volta, di denunciare l'accaduto alle autorità della propria ambasciata.
Da questo fatto, e dall'inchiesta della magistratura che ne è seguita, parte la ricerca di Leogrande, che viaggia tra le strade di una Puglia in cui la violenza e la solitudine si insinuano in ogni piega delle terre crepate dal calore estivo.

L'affresco che viene fatto della realtà del caporalato moderno è maestoso nella sua crudezza e nella sua dovizia di particolari, raccolti leggendo le carte processuali ed intervistando le vittime e gli esperti, ma il principale pregio dell'opera di Leogrande sta nel travalicare i confini del fatto di cronaca e saper cogliere un quadro storico e sociale di lungo periodo.
Perchè la realtà della Puglia odierna ha le sue radici nella storia della civiltà rurale, delle lotte di emancipazione fatte dai contadini e delle repressioni violente che sono culminate nel totalitarismo fascista. L'autore affianca allora lungo tutto il racconto la contemporaneità al passato: creando un ponte tra il fatto di cronaca del 2007 ed un altro fatto di cronaca di molti anni fa, la strage contadina perpetrata dai padroni terrieri a Gioia del Colle nel 1920. E attraverso la cronaca si raccontano due mondi, quello degli inizi del XX secolo e quello degli inizi del XXI, dove la violenza e la sopraffazione colpiscono similarmente i lavoratori, ma che differiscono per un fattore centrale. Nel Novecento i lavoratori, i contadini del luogo, avevano potuto scegliere la strada della lotta, creando le Leghe e dando vita ad un moto di rivolta che aveva infiammato tutto il mondo agricolo. Oggi, invece, gli sfruttati non riescono ad alzare la loro voce, solo in pochi riescono soltanto a denunciare quanto avviene.
L'assenza della lotta, questo colpisce oggi, e questo è anche il titolo dell'ultimo capitolo di questa magistrale inchiesta, a cavallo tra storia, economia, cronaca e ricordi (perchè la storia personale dell'autore e dei suoi antenati entra anch'essa, d'un tratto, nel racconto fornendo un ulteriore spunto di suggestione). E la lotta e l'emancipazione di questa nuova classe di schiavi è un po' il convitato di pietra di tutto il libro. Il sentimento di indignazione ed impotenza che pervade la lettura è bilanciata da una certezza che si fa largo pagina dopo pagina:

"La nostra generazione fa fatica a capire tutto questo. Ma questa umanità che vive ai margini esiste. Gli anfratti che da quassù non si vedono più ci sono. Le grotte sono rigonfie di storie come questa e prima o poi la pressione accumulata farà saltare in aria la superficie. Il silenzio sarà rotto da un fragore liberatorio, e allora l'assenza della lotta si volgerà in lotta reale. La dimenticanza in sovrabbondanza. E i conti forse saranno saldati."

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