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Scritto da nel Economia e Mercati, Numero 63 - 1 Ottobre 2009 | 0 commenti

Il Giappone tiene, ma cambia aria

È troppo facile associare l'ascesa del leader democratico Yukio Hatoyama alla crisi economica e finanziaria che da due anni sta mettendo a dura prova le scelte di sviluppo economico mondiale, ma la stragrande maggioranza dei giapponesi non rimprovera all'ex primo ministro Taro Aso, e ai suoi predecessori che si sono avvicendati nei 50 anni di governo liberaldemocratico, di avere gestito male l'economia. A differenza dell'Occidente dove ognuno è interessato a ricercare nell'Altro le cause di una degenerazione di comportamenti (i governi nei confronti delle banche, i lavoratori nei confronti dei manager, i manager nei confronti dei politici, e così via), nel Paese del sol levante sono tutti d'accordo nel sostenere che l'urgano finanziario abbia avuto origine negli Stati Uniti, a partire dal settore immobiliare; che il Giappone sia stato relativamente meno colpito; e, infine, che l'Europa abbia avuto una pesante ricaduta a causa dell'assenza di forti personalità politiche e di una strategia comunitaria condivisa. Tuttavia, nelle elezioni dello scorso 30 agosto l'aria politica è cambiata in favore dei democratici perché molti cittadini giapponesi, in particolare giovani, hanno privilegiato un sentimento di cambiamento culturale piuttosto che di conservazione materiale della ricchezza creata con la trasformazione post-bellica grazie ai liberali. Un sentimento di rivoluzione culturale che per una volta lascia da parte l'obiettivo primario di mantenersi come seconda potenza mondiale e fa posto ad accenni di fraternità e solidarietà sociale; a giudizi critici nei confronti del libero mercato come obiettivo e non come strumento; e, anche, alla necessità di una maggiore integrazione asiatica nella speranza che la tigre possa continuare a ruggire nel futuro. È questo il nuovo linguaggio nipponico che il governo democratico vorrà affermare con giusta cautela e dovuta gradualità .

Certamente i dati del Giappone non sono positivi, ma sono cifre modeste rispetto all'impatto negativo che la crisi ha fatto registrare sui consumi, sugli investimenti e sul commercio estero di molti Paesi occidentali.

È vero che l'andamento del Pil risultava già negativo nel 2008 (-1,59% sull'anno precedente) e risulterà in linea con la crescita negativa prevista dall'Fmi per il 2009 (-5,31%), ma a differenza degli Stati Uniti e dell'Europa in questi ultimi anni di crisi la deflazione ha attutito questi effetti soppesando i costi della diminuzione della ricchezza complessiva prodotta alla reale percezione di un aumento di valore del proprio denaro a disposizione.

Per quanto riguarda il commercio estero, essenziale per il sistema nipponico, è vero che dopo cinque anni in cui il peso delle esportazioni sul Pil è cresciuto dal 10,7 al 16,9% rispetto al Pil, nel 2008 le esportazioni giapponesi, soprattutto quelle verso gli Stati Uniti, hanno subito una flessione importante ma non in misura drammatica rispetto a quanto si può riscontrare in altri Paesi ad alta vocazione manifatturiera.

È vero, inoltre, che il tasso di disoccupazione crescerà dal 3,8% al 5,6% nell'arco di due anni, ma non ha nulla a che vedere con gli esponenziali aumenti della disoccupazione in tutto il mondo. L'Italia partendo dal più basso tasso di disoccupazione nell'area euro (6,1% nel 2007) supererà nel 2010 un tasso del 10% arrivando ai livelli di Francia e Germania; ben peggiore è lo scenario statunitense post-crisi con un tasso di disoccupazione più che raddoppiato (4,6% del 2007 al 10,1% atteso nel 2010).

La vera preoccupazione per il Giappone resta, ormai da troppi anni, il fardello del debito pubblico che fa un po' assomigliare il Paese del sol levante all'Italia. Sia pur in modo differenziato in Europa, con l'eccezione di Svezia, Danimarca e Finlandia, i deficit pubblici sono quasi triplicati (dall'8,6% della Spagna al 12% dell'Irlanda) facendo saltare l'intero impianto di stabilità di Maastricht e portando l'indebitamento pubblico a livelli preoccupanti nel 2010 (dal 70,6% della Francia al 117,5% dell'Italia). I pacchetti di stimolo fiscale varati dal governo nipponico nel biennio 2008-2009 e pari a circa 100 miliardi di euro (3% del Pil, contro il 5,5% degli Stati Uniti e il 19% della Cina), faranno balzare il debito pubblico del Giappone al 227% rispetto al Pil nel 2010 (dai 142% del 2000). L'impressione è che questo sia stato uno sforzo giusto e necessario, ma il Giappone e insieme l'Italia resteranno due Paesi bloccati sul piano decisionale e dipendenti completamente dalla volontà europea il primo e dalle decisioni della Cina il secondo.

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