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Scritto da nel Itaca, Numero 63 - 1 Ottobre 2009 | 0 commenti

XI – Primo incontro di Zenone e Palamede

  Itaca

Romanzo a puntate
Capitolo Undicesimo
Dove prosegue la pioggia settembrina a Troia
e Zenone osserva le formiche
Ragazzo – dice Zenone allo scriba interrompendosi il canto – ti racconto una storia, vuoi? – la barca è tutt’altro che tranquilla, scossa dal mare grosso, la pioggia non accenna a scampare o diradarsi, ma Zenone sembra più intero e ben piantato che mai, sereno sotto il temporale.

Io quand’ero un filucco preda dei venti come te – racconta Zenone al ragazzo che in ogni modo s’aggrappa per non cadere in mare – per ragioni di nascita vagabondavo apolide, come sai già, io come te adesso e come tanti altri Pelasgi dopo la guerra nostra, e mendicando a Corinto ho sentito raccontare di un figlio di re che vive però selvaggio nella foresta. Hai mai sentito di questo principe? – lo scriba rotola da un canto a un altro della barchetta, afferrandosi come può – …io mi sono subito messo a cercarlo – continua Zenone – per giorni ho domandato di una nave di mercanti che raggiungesse la sua isola, ma era un’isola talmente piccola e sconosciuta, ai tempi, e il suo porto talmente inorganizzato che non è stato facile. Mi c’è voluta qualche settimana, ma finalmente ero imbarcato, e presto sedevo già all’ombra della quercia secolare, in città, nella piazza, senza un’idea ben precisa di che ci volessi fare, all’isola del principe selvatico.

La quercia dava una buona ombra, e lì stavo. Intorno mi giravano le faccende di una comunità che pur mantenendo le radici achee s’era mutata per via dell’isolamento in qualcosa d’altro e d’irriconoscibile per me. Erano tutti affaccendati, chi in una cosa chi in qualch’altra cosa, pur non essendoci all’apparenza bisogno di far niente. Ero l’unico a star fermo, camminavano tutti con degli strumenti per le mani. Carri, ceste, ogni tipo di strumento. C’era anche chi, forse non avendo occupazioni, s’era inventato di pulire la piazza con delle paglie, un gruppo di tre vecchi; e per ore l’ho visti spostare la polvere da una parte a un’altra. Tutti si muovevano in gruppo e mai nessuno da solo, finchè non è arrivato uno tutto silenzioso, riflessivo, che solitario osservava ogni cosa, anche lui non smettendo mai di camminare. Era Palamede, il filosofo dell’isola. Camminava avanti e indietro. Spesso guardava il sole, guardava le ombre, prendeva delle misure, ci rifletteva a passeggio, non parlava con nessuno.

Non parlava con nessuno, Plamede, e camminava assorto. Contava, pare. Teneva dei sassi nelle tasche, se li passava da una tasca a un’altra, ci rifletteva un po’, ricominciava dal principio con una tasca vuota e una tasca piena, o con tutti i sassi nelle mani, o mettendo i sassi in terra. Solo quando mi ha visto, per qualche momento s’è fermato. Poi ha ripreso i suoi passi, i suoi calcoli, le sue misure dell’ombra, sempre di più s’allontanava da me fino a scomparire e non farsi rivedere prima della mattina dopo.

Sotto la quercia avevo passato indisturbato la notte, finchè non m’ha svegliato il brusìo degli abitanti che prima ancora dello spuntar del sole, come tante formichine laboriose, si muovevano di qua e di là senza tregua. E Palamede era di nuovo lì, misurando esattamente come il giorno prima, calcolando coi suoi sassi, e riflettendoci su. Tutto uguale a ieri. Tutto si muoveva e tutto era uguale. E chissà cos’era che misurava, cos’è che calcolava. Il giorno dopo mi sono svegliato prima di tutti e mi sono messo a camminare anch’io. Camminare a volte magari più lento, ma senza mai star fermo. Come gli spolverieri m’ero inventato anch’io un’occupazione: spostavo una per una le mie cose da un angolo a un altro della piazza, le riordinavo, le guardavo da vicino e da lontano, poi ripetevo in senso inverso lo spostamento finchè tutto non fosse ritornato com’era prima, ogni cosa al posto di prima, io pure al posto di prima (ma senza sedermi: al posto di prima solo per un momento), e di seguito spostavo ogni cosa all’angolo opposto, finchè in entrambi i casi tutto era al posto di prima, e quando ho visto così ho avvicinato Palamede: Mi puoi fare il favore di aiutarmi a sistemare le mie cose dov’erano? – gli ho detto. Lui, che già da un po’ mi osservava e misurava la mia ombra da lontano, lui Palamede non sapeva che fare. È stato immobile per un tempo lunghissimo, a riflettere. Poi ha messo tutto nel mio sacco e me l’ha messo in spalla, ben soddisfatto – così racconta Zenone allo scriba in una sera di temporale, pescando sul litorale troiano. Imbarca la rete: qualche pesce l’hanno preso.

Ma non mi stavi raccontando del principe selvatico? – gli fa lo scriba a Zenone che ricordandosi di Palamede rideva da solo. Già se l’è dimenticata, lo scriba, la tristezza e il vuoto di poco prima, all’abbandonare le tavole. Per tutta la durata del racconto pure della pioggia s’era dimenticato, e della fame. Ti sto raccontando del principe selvatico – gli dice Zenone – perché devi sapere che Palamede, il filosofo dell’isola, del principe selvatico era un grande nemico – e si mette a remare verso la spiaggia, cantando sornione.

Lo scriba è così ansioso di rientrare e quindi forse riprendere il racconto, che si mette a mulinare con le braccia, aiutando i remi. Non ha idea del perché il vecchio gli racconta di questo principe, o del filosofo dei sassolini in tasca, ma la verità è che non gl’interessa più un perché: vuole solo sentirsi dire, andari avanti col racconto fino a dormire con le parole ancora nelle orecchie, in pace, ecco: in pace. Magari con gli occhi chiusi, tutto il corpo a riposo, e dimenticarsi della meschinità dei suoi problemi, delle sue tavole; dimenticarsi di se stesso, meschino.
(continua…)

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