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Scritto da nel Itaca, Numero 64 - 1 Novembre 2009 | 0 commenti

XIII – Nuovi entusiasmi di Zenone

Itaca
Romanzo a puntate

Capitolo Tredicesimo
Dove Zenone ritrova l'entusiasmo e perde però la conoscenza



Al termine della pioggia il tempio s'è fatto tanto silenzioso che Zenone, svegliandosi come un rumore ti sveglia, può sentire il battito del cuore dello scriba, tonante nel sonno. Non è ancora mattina, ma Zenone si trova sveglio e vispo come un gatto. Non riesce a tener ferme le gambe: a zigozago tra le rovine di colonne a terra, pezzi di muro e statue di deità schiantate in pezzi, esce da lì e cammina fino alla spiaggia, la crosta di sabbia che si sbriciola a ogni suo passo.

Allora, la facciamo questa alleanza? – gli risuonavano a Zenone queste parole di almeno quindic'anni prima, Odisseo con un pollo in mano, Agamennone e Menelao anche loro con un pollo in mano, il satiro appeso a testa in giù…
Il satiro… – pensava Zenone. Ecco la profezia dell'oracolo – era stato capace di dire, soltanto; Odisseo con l'arco teso, Laerte di sotto, il satiro alla quercia…che scimunito, ch'era sempre stato: sempre a giocar la parte dl filosofo, mai a far quel che va fatto, …sempre a fare il saggio, il toro seduto che non agisce e parla… – così rifletteva Zenone sulla spiaggia, di fronte al mare grosso – …ma quanto parlo? quant'ho parlato? – il vento gli entrava nell'orecchie, e dall'orecchie gli scrollava il cervello. In un attimo di distrazione gl'era parso di star lì ritto in piedi nel porto di Itaca, e sarebbe mancato solo di buttarsi a mare e nuotare un po' a sinistra per arrivare alla baietta delle baccanti. Pur col mare grosso l'avrebbe fatto, quella mattina, avrebbe nuotato alla baia per bere vino fino a svenire, con nell'orecchie dei canti di quelle là, piuttosto che'l vento.

La verità è che avrebbe fatto di tutto per ritornare a Itaca. Quell'isoletta minuscola, poverissima, odorosa di capre e maiali, forse una delle isole più orrende che gl'era mai capitato di starci, ma da quando se n'era andato diec'anni prima ci aveva pensato sempre. Non ci aveva passato più che qualche giro di luna ogni tanto, vai e vieni, per anni vai e vieni; eppure, adesso che Troia, la sacra Ilïon dov'era cresciuto da bambino, adesso che Troia non esiste più, non c'è posto più che Itaca dove Zenone desidera di stare.

Ragazzo, svegliati! – dice rientrando in corsa all'angolo del tempio dove, rincucciato vicino a quel ch'era un fuoco la sera prima, dorme lo scriba – …andiamo a Itaca!
A far che, a Itaca? – di alzarsi di lì non ci pensa nemmeno, in quel momento, lo scriba. Nemmeno riesce a tenere gli occhi tutti e due aperti, figuriamoci andare a Itaca, adesso. Ma che razza di idee – pensa. Calmati, Zenone, che sei tutto sudato – gli dice a quell'altro che non ha più l'età sbarazzina per correre avanti e indietro dal mare alla collina, così a quel modo.

Ansimava, lì con la lingua fuori e la bocc'aperta, i sudori freddi, c'aveva. Pure si trattava di nervosismo, l'idea irragionevole di mettersi in un viaggio montagnoso già che l'estate se n'è partita, ma l'eccitazione era tale nel solo pensarci, non stava nella pelle per togliere il disturbo lì a Troia (se Troia la si può ancora chiamare) e mettersi per la via. Una volta preso il vïaggio sarebbe stata solo questione di tempo e sarebbe stato a Itaca, avrebbe passeggiato per i sentieri che portano alla montagna sù dove con Odisseo facevano sugl'alberi il nido, dove il vaccaro Autòlico anticamente abitava; avrebbe preso il sentiero per la baia delle baccanti, la notte, o ci sarebbe andato a nuoto come facevano lui e Odisseo da ragazzi, per cantare avvinazzati. Evoeh! – e giù un bicchiere. Avrebbe potuto incontrare Palamede e Laerte, se ancora stavano in vita. Ma non erano poi così vecchi.
Itaca… – non ci poteva nemmeno pensare, Zenone, tornare a Itaca.

La matina s'accordavano già con i commercianti che speculano sulla ricostruzione di Troia, pronti a vogare tutto il tempo avevano già un passaggio per Atene.
Zeno! – lo scriba non ne poteva più, col suo remo. Faceva freddo, aveva fame, era stanco.
Zeno! – sapeva di non poter fermarsi, ma non ne poteva più – …Zeno io lascio!
Eh!? – Zenone pure lui era talmente fiaccato che non capiva più niente, da qualche ora che remavano s'era lasciato andare a uno stato di incantamento, di rapimento quasi mistico per la fatica.

– Io non ce la faccio più, Zeno', …io lascio il remo!
– Non fare il mentecatto, ragazzo, qui ti prendono a frustate.
– Meglio le frustate che remare, …o no?!
– …si vede che non t'hanno frustato mai… ma se vuoi provare, c'hai l'occasione alla mano.

Continuava quindi a remare lo scriba, piangendo come un vitello. Io volevo scrivere – diceva – volevo solo scrivere – singhiozzava e si lamentava tutto il tempo.
Io quello, so fare: scrivere! – diceva.
Eh, ben, scrivere, scrivere, sempre a pensare alle tavole, tu… ma poi, una volta che hai scritto? una volta che hai inciso col tuo scalpellino? poi che ci fai, con le tue tavole? – Zenone ormai, la faccenda dell'alfabeto e porcherie simili, le tavole cerate e lo scalpello, la dettatura con quel tic-tic-tic tutto il tempo, uno nemmeno ci poteva prendere il ritmo, sempre ci si deve interrompere. Quel tic-ta-tic, cantare non si può nemmeno cantare – pensa Zenone, remando con le ultime forze.
E sai cosa ti dico, anche? – gli fa al ragazzo – sai che ti dico? – ma prima di dir quel che gli dice cade come una mosca, svenuto per debolezza, all'indietro.

(continua…)

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