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Scritto da nel Itaca, Numero 64 - 1 Novembre 2009 | 0 commenti

XIV – Il satiro e la quercia

Itaca
Romanzo a puntate

Capitolo Quattordicesimo
Dove Zenone riprende conoscenza
e si fanno investigazioni anti-coloniali



Lì sul remo si risveglia Zenone, tutto chino, con la schiena in fiamme per le frustate. Anche incosciente lo stavano punendo, quelli. Forza sprecata – pensa Zenone piangendo – …nemmeno li sentivo, io… – ride da solo e Suash!: un'altra bella frustata. Ride, piange: non sa nemmeno chi è, Zenone. Se ne sta lì, si lascia squoiare le spalle, appoggiato lascivamente al suo remo. Si sarebbe anche lasciato morir lì, non fosse che il pensiero di arrivare a Itaca lo eccita troppo. Voleva arrivare. E per partirsi a quella maniera, poi, come uno schiavo in mare, morto di fiacchezza e frustate: questo proprio no.


Di notte remavano, di giorno riposavano. Zeno, io non ce la faccio più, mi butto in mare – lo scriba.

– Macché in mare! In mare i pesci!
– Non ce la faccio più
– Ma come fai a dir Non ce la faccio più? Alla tua età! Quand'ero un filucco anch'io come te…io sulle navi a remare ci sono cresciuto! è uno dei primi ricordi che ho.
– Eri uno schiavo?
– No… era così, come ora… così… per viaggiare.

Non intendeva questi discorsi di viaggiare, lo scriba. Tutta quella fatica per cosa? L'orizzonte sembrava comunque lontano, non lo puoi raggiungere mai – pensa. E quindi – spiega lo scriba a Zenone – quindi non si arriva mai.
Zenone rizza le orecchie come un lupo: …e quindi non ci si sposta mai? – erano anni che non faceva discorsi di quel tipo, di filosofia astrusa.
Mai – gli fa lo scriba.
Allora dimmi una cosa, dimmi una cosa: e se noi tra qualche giorno arriviamo al porto di Atene – dice Zenone allo scriba – come la mettiamo, allora, con la questione dello spostamento?
Tu, ci arrivi – dice – io mi butto in mare. Stasera, come scende il sole, quando suona il corno per noi, quando ci chiamano ai remi, io mi butto… ecco come la mettiamo con lo spostamento… – dice lo scriba – …e mentre mi butto penserò a te, maledetto cane, e ti maledirò mentre Poseidone mi morde il culo! – non l'aveva mai visto così fiero, Zenone; una strana manifestazione.


Piuttosto – gli fa – …ragazzo, mi ascolti? …piuttosto: vuoi sentire la storia del principe selvaggio? – lo scriba lo guardava con intenzioni omicide, adesso. Forse, prima di tuffarsi, lo avrebbe ucciso a remate, a quell'idiota d'un analfabeta. E che ci devo fare, con questa storia del principe selvaggio? – dice.
Niente – gli fa Zenone – tu l'ascolti, immagini, ti fai un riposino,.. tutto lì.

Se ne stava lì confuso, lo scriba, e se ne stavano lì tra i cento altri a riposo. Tutti con l'anchilòsi alle braccia. Dialogavano come posseduti dalla stanchezza. E mi racconterai la storia anche ai remi? – gli dice a Zenone finalmente il ragazzo. Zenone, che anche lui remando si sarebbe lasciato morire, cominciava a dubitare della magnanimità del suo amico, e lo immaginava buttarsi davvero in mare.
Non m'interromperò finchè non saremo ad Atene, se vuoi – dice.

Prende così a raccontare Zenone: Tornavamo da un lungo viaggio io col principe selvatico, s'era incontrato per la via un satiro che l'abbiamo visto esibirsi in piazza e l'abbiamo preso con noi fino all'isola – lo scriba sdraiato con braccia e spalle anchilosate, uno strappo al collo, stava immobile – allora come siamo arrivati alla piazza, questo satiro s'è messo a guardare la quercia, e la guardava, la guardava, la guardava e la riguardava grattandosi il mento caprino. Ma da quant'è che state in quest'isola? – voleva sapere. Il principe ha fatto quattro calcoli, ha buttato lì una ventina d'anni, venticinque, sicuramente non più di trenta. Il satiro una faccia, ha fatto: Mi prende in giro – mi fa. S'è messo a ridere come un maiale: Venticinque anni! – diceva – una quercia secolare di venticinque anni! Ma è incredibile!
Forse è una quercia che era già qui prima – era il re dell'isola, il padre del selvaggio, che sentendo dire del ritorno del figlio ci aveva raggiunto.
Ah sì,… scusi, e voi siete…?
Sono il re – dice il re.
Il re? …ah beh, allora… beh, sì, era qui prima, abitava qui, è venuta in barca, lo dice anche il re – gli fa il satiro. Il re non aveva nessuna voglia di ridere. Se ne stava lì, il re, zitto e rigido a guardar noi.


Da quel primo giorno il satiro stava sempre lì alla quercia a parlare con la gente, faceva i suoi canti satirici e tra una cosa e un'altra dialogava. Di solito qualcuno si offendeva. Uno poi ha preso il bastone, s'è ritrovato subito una freccia nel collo. Il principe selvaggio tirava con l'arco come nessuno, e quindi, per cui…
C'è frecce per tutti – diceva.


Ed è toccato per primo a un commerciante incollerito dall'accusa di pesare con due misure le merci. Poi dopo di lui un'amante della regina che s'è visto raccontare in piazza i suoi segreti. Poi ancora il più anziano dei sacerdoti, a
nche lui giù stecchito con una freccia nel collo. Era uno di quei sacerdoti di Poseidone, come ce n'erano tanti a Troia mentre stavamo là,… come gli avvoltoi.



Maledetto! – diceva il re al principe – tu ci attiri la vendetta degli dei con quel tuo arco! Ma pure i sacerdoti? Ma nessun ritegno, hai, figlio mio? Eh, bastardo? – il principe se ne stava sempre lassù appollaiato sulla quercia, mentre il satiro parlava e tutti all'intorno. E io con lui, anch'io sulla quercia. E da lassù, con di sotto il sacerdote morto stecchito e il re che ulula, il principe ha fatto questo discorso che nessuno ha più dimenticato: Ipocriti! – ha detto – io vi ucciderò a uno a uno, tutti gl'ipocriti a uno a uno – ha detto così e siamo rimasti lì zitti appollaiati sulla quercia. Ma un giorno se n'è venuto fuori con la storia della quercia: Questa vecchia quercia che c'è qui nella piazza – ha detto – questa qui dietro, è l'unica quercia che c'è nell'isola, e mi sono ricordato di una volta che in Atene un sofista mi spiegava che le quercie le semini, ci mettono centinaia di anni a crescere,… questa qui almeno trecento, quattrocento anni, a vederla… vero Palamede? …il re insomma, …il glorioso Laerte,… il giusto, no?, il saggio Laerte che trent'anni fa, come dice, è arrivato con suo padre nell'isola, si vede che ha pensato, il lungimirante Laerte: l'isola c'ha bisogno di una piazza, una piazza ci starebbe bene una quercia secolare, prendo una quercia secolare e la porto all'isola,…un atto eroico, signore e signori, no? Un atto eroico dell'eroico e divino Laerte.
Laerte?! – dice lo scriba, come risvegliato da un coma – …ma Laerte di Itaca?

– Laerte di Itaca, sì
– Ma allora l'isola del principe selvaggio è Itaca?
– È Itaca
– Itaca quella dove andiamo noi?
– Dove andiamo noi.
– E il principe è Odisseo?
– È Odisseo
– E la quercia?
– La quercia era un albero sacro agli indigeni che ci stavano prima,…stava lì da prima: il patriarca l'aveva piantata e i suoi figli custodita quando la piazza era ancora un prato invece che pietre incastrate una con l'altra…
– E il satiro?
– Il satiro,…eh beh, il satiro…

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Nei prossimi capitoli: E il satiro? E quest'isola dei lupi, allora? Che di 'sti lupi se ne doveva parlare questo mese e alla fine non s'è detto niente. Lo stesso vale per la questione di come può un filosofo far partire il re alla guerra. Ma insomma: se raccontiamo tutto subito poi il libro finisce, sarebbe un peccato. Lasciamo invece che Zenone e lo scriba arrivino a Itaca (dovrebbero arrivare per l'inizio di dicembre, molto prima di quell'altro che se la spassa per il mediterraneo e prima che arrivi, ancora: campa il cavallo e l'erba ricresce), a Itaca dove Laerte, nel suo frutteto, più niente di niente ne vuol sapere.

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