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Scritto da nel Economia e Mercati, Numero 65 - 1 Dicembre 2009 | 0 commenti

La mafia in Emilia Romagna: 40 anni di sistematica infiltrazione

Il fenomeno dell'infiltrazione mafiosa in Emilia Romagna non è affatto un problema recente e di poco conto. Da svariati anni infatti si svolgono sul nostro territorio attività criminali che non sono riconducibili a semplici traffici legati alla microcriminalità locale. Sempre più spesso le procure di Palermo, Catanzaro e Napoli/Caserta sono in contatto con quella di Bologna per cercare di arginare questo fenomeno che rischia di diventare sempre più esteso. Numerose operazioni di polizia, disposte dalle sopraccitate procure, hanno negli ultimi anni portato allo scoperto una fitta rete di collegamenti fra le regioni dove ha origine il fenomeno mafioso e quelle del Nord. Questa lenta è incessante infiltrazione è stata portata avanti a partire dal 1965 fino ad oggi grazie anche ai moltissimi “soggiorni obbligati” disposti dai magistrati antimafia dell'epoca, di cui ben 2305 casi hanno interessato il territorio emiliano-romagnolo. Questi provvedimenti, come la recente storia italiana dimostra, non solo non hanno assestato un colpo definitivo alle organizzazioni in questione nelle loro regioni di origine ma, al contrario, hanno dato la possibilità a questi “esiliati” di proseguire ed implementare il loro lavoro per la famiglia, approfittando della massiccia presenza di immigrati meridionali ed extracomunitari e stabilendo rapporti di collaborazione con le organizzazioni criminali locali.

Tra i più illustri beneficiari di questi soggiornati troviamo Don Tano Badalamenti – capo mafia di Cinisi che si faceva recapitare il pesce fresco da Palermo a Sassuolo ogni settimana – e Giacomo Riina parente del più tristemente noto Totò.

A causa di queste numerose disposizioni personaggi come quelli sopraccitati andarono a vivere in piccoli centri abitati del nord Italia. In queste località essi riuscirono a mimetizzarsi con l'ambiente circostante e spesso, anche se non sempre, a comportarsi in modo corretto – a volte in modo del tutto ineccepibile – al punto tale che il loro comportamento non veniva considerato come criminale dalla popolazione e dagli stessi organi preposti alla vigilanza. Evidentemente nell'immaginario collettivo il mafioso era ancora visto come un uomo rozzo e violento che se ne andava in giro con la lupara e con la coppola in testa . Questa visione arcaica, mistificando il vero aspetto del mafioso moderno, ha di fatto reso miope la cittadinanza nei confronti di un problema le cui dimensioni stavano diventando sempre più rilevanti. Storicamente le provincie di Modena e Reggio Emilia sono quelle più colpite dal fenomeno. Al loro interno hanno operato e vissuto diversi mafiosi di primo piano, spesso sconosciuti in terra straniera ma noti nei loro paesi di origine. In passato, a causa di questa miopia, molti reati legati al traffico di stupefacenti, alla truffa ed alla bancarotta fraudolenta non sono stati considerati parte di un progetto più ampio di stampo mafioso, nonostante vedessero coinvolti alcuni di questi personaggi. Tra i pochi provvedimenti con cognizione di causa va sicuramente citato un rapporto della Criminalpol che risale all'estate del 1979. A firmarlo fu l'allora vice questore di Bologna Luigi Rossi che, centrando il problema, denunciò 82 persone “per associazione per delinquere di tipo mafioso ai sensi dell'art. 416 C.P.”.

Altre prese di posizione di questo tipo si sono avute solo agli inizi degli anni novanta, grazie all'attività della Direzione distrettuale antimafia di Bologna che ha cambiato radicalmente il modo di affrontare questo problema, circoscrivendo le attività di interesse delle cosche operanti in regione.

La principale e più remunerativa attività delle organizzazioni mafiose è stata, e continua ad essere, quella del traffico delle sostanze stupefacenti. A partire dagli anni '70 questo business è stato progressivamente preso in mano dagli uomini d'onore emiliani che, interagendo con i criminali locali, hanno stanziato ed allargato il loro giro d'affari. Non di rado nelle inchieste che si sono susseguite dagli anni '90 fino ad oggi sono stati accostati nomi di criminali nati e cresciuti in Emilia Romagna con noti esponenti di famiglie mafiose. I casi del modenese Renato Cavazzuti e del reggiano Paolo Bellini, entrambi narcotrafficanti in contatto con cosche mafiose, ne sono la prova. Il Bellini operò addirittura come killer per conto della 'ndrangheta dimostrando un elevato grado di affiliazione. Tuttavia, nonostante la sistematica infiltrazione, le attività classiche delle mafie meridionali non erano facilmente attuabili, e tuttora non lo sono, in un territorio come quello emiliano romagnolo. La richiesta del pizzo o i sequestri di persona, a differenza del narcotraffico, risultavano essere troppo rischiosi e la loro scarsa diffusione può essere attribuita al mancato controllo del territorio e alla scarsa omertà dei suoi abitanti.

Accanto al mercato degli stupefacenti, l'altro vero settore di interesse è quello puramente economico legato al riciclaggio del denaro sporco. Di fatti uno dei problemi principali di tutte le mafie è rappresentato dalla necessità di ripulire i soldi derivanti dagli affari illeciti. A questo proposito sono state messe a punto delle strategie molto efficaci rese possibili da insospettabili notabili del posto che, mettendo in collegamento due mondi altrimenti difficilmente accostabili tra loro, hanno facilitato e reso stabile l'infiltrazione. Attraverso questi uomini cerniera - tutti originari dell'Emilia Romagna – che si collocano in punti nevralgici dove si incrociano economia legale ed illegale, le cosche hanno sistematicamente ripulito il loro denaro. Senza questi uomini, infatti, sarebbe stato molto più difficile per i clan riuscire a mettersi in contatto con il mondo della legalità, e ancora più difficilmente si sarebbero potute montare ad arte le bancarotte fraudolente con le quali sono state fatte fallire numerose società. Tutto ciò è stato reso possibile attraverso l'operato di fidi banchieri che avallano queste operazioni attraverso la divulgazione di notizie bancarie camuffate come nel caso del modenese Cavazzuti attraverso la Cassa di risparmio di Modena o di Livio Collina, bolognese di nascita ma palermitano di adozione. Anche nelle numerose sostituzioni di proprietà, che avvengono e stanno ancora avvenendo in tutta la regione, questi soggetti fungono da trait d'union, avallando situazioni economiche delle quali conoscono bene i retroscena. Questo fenomeno avviene più marcatamente sulla riviera romagnola dove spesso sono stati segnalati casi di offerte fuori mercato – eccessivamente più alte – finalizzate al controllo di diverse attività commerciali con le quali ripulire i soldi sporchi e trafficare ulteriormente.

Numerosi furono anche i tentativi di infiltrazione negli appalti pubblici che vennero sventati dalle attente amministrazioni locali. A destare sospetto furono i ribassi operati da alcune società meridionali, spesso anche del 25/30% sul prezzo di base, che hanno orientato le giunte verso l'annullamento della gara d'appalto.

I casi più eclatanti si sono avuti in relazione a due giganteschi appalti banditi dal comune di Bologna per la realizzazione dell'aeroporto e dell'Arena del Sole, dove il tentativo di inserimento da parte dei fratelli Commendatore, imputati per il sequestro dell'imprenditore Angelo Fava (originario di Cento) e conosciuti nel catanese per affari in odor di mafia, sono stati estromessi dai giochi.

La comprovata attività di riciclaggio di denaro sporco perpetuata per più di venti anni in Emilia Romagna ha reso notevolmente difficile risalire ai capitali che hanno dato luogo ad attività commerciali, a cambi di proprietà, assegnazioni di appalti e lavori edili di vario genere. E' infatti possibile che alcuni di questi beni rilevati o comprati dalla mafia possano essere diventati totalmente legali mentre altri invece riescono ad essere individuati e confiscati. Sono di pochi giorni fa i dati relativi ai 66 beni immobili e alle 22 aziende confiscate alla criminalità organizzata in Emilia Romagna. Purtroppo altrettanto recente è la proposta di rivendere i beni confiscati alle mafie all'asta, un meccanismo che potrebbe vanificare i diversi passi avanti fatti fin ora per arginare un fenomeno ben lontano dall'essere sconfitto sia al Sud che al Nord.

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