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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 65 - 1 Dicembre 2009 | 0 commenti

Tra Sciascia e la “Gomorra” di Saviano

«Non aveva capito la mafia nella sua trasformazione in multinazionale del crimine, in un certo senso omologabile al terrorismo e senza più regole di convivenza e connivenza col potere statale e col costume, la tradizione e il modo di essere siciliani». Con queste parole, pubblicate su L'Espresso del 20 febbraio 1983, Leonardo Sciascia giustificava l'assenza della sua voce nel peana di lodi che si era levato in onore del generale Dalla Chiesa, prefetto di Palermo, dopo il suo assassinio, per opera della mafia, il 3 settembre 1982. Quattro anni prima aveva fatto mancare il suo contributo, altrettanto clamorosamente, pure al cordoglio nazionale per l'uccisione di Aldo Moro, promosso a padre della patria – egli sosteneva – da una retorica deteriore che spesso arrivò persino a definire “criminale”. Sciascia era un intellettuale militante ma non organico, il primo a riaccendere i fari sul problema “mafia” col suo celebre libro «Il giorno della civetta» (1961) – a un secolo di distanza, circa, da quando essa aveva fatto il suo ingresso nella letteratura, con I mafiusi di la Vicaria di Giuseppe Rizzotto (1863) – ma il primo anche a mettere in allerta sui problemi del potere dell'istituzione dell'Antimafia. Sciascia cercava di passare ogni situazione a filo di ragione e quando la sua lama si imbatteva in qualcosa che non riusciva a scalfire, come un grumo rappreso di potere, lo denunciava senza peritarsi del rispetto dovuto ad una strategia politica eterodiretto o, tantomeno, ad uno statuto ideologico di partito.

Fra la scrittura di Sciascia e quella di Saviano non c'è quasi nulla in comune (o meglio: se qualcosa c'è bisognerebbe chiederlo a Vincenzo Consolo, amico di entrambi e ideale trait-d'union tra i due scrittori). Tanto è sobria, geometrica, illuministica la prosa di Sciascia, che mai ammicca al lettore se non con il fulmine dell'ironia, così è sincopata (in molti capitoli di Gomorra il periodo non supera la riga e mezza), tesa, nervosa la prosa di Saviano, spesso ingolfata di rabbia. Per questo quando si trova qualcosa che accomuna questi due scrittori esperti di criminalità organizzata si rimane un po' stupiti. Quando Sciascia parla della «trasformazione [della mafia] in multinazionale del crimine» anticipa di ventitrè anni il sottotitolo di Gomorra (2006): Viaggio nell'impero economico e nel sogno di dominio della camorra. La camorra, o meglio, il Sistema, termine “tecnico” in uso tra gli affiliati, è ormai da tempo una enorme impresa che agisce su uno scenario globale: questo il messaggio principale del libro di Saviano, che invita ogni lettore a non sentirsi estraneo al problema. Per frantumare lo stereotipo del “pizzo”, per aggiornare il concetto dell'“estersione”, Saviano scrive che «Il clan non impone con l'intimidazione il prodotto che decide di “adottare” ma con la convenienza» (p. 61); che il racket deve essere visto «come un acquisto imposto di servizi» (p. 215). Questo ci induce a credere che, fino al momento in cui l'alternativa per una vita nel solco della legalità offerta dallo Stato ai cittadini di Gomorra non sarà parimenti allettante, fino a quando, in altre parole, essere cittadini virtuosi non sarà conveniente, ogni battaglia civile condotta contro le mafie sulla base di principi ideali è destinata a rimanere, per quanto lodevole, pura testimonianza della “contrarietà”.

Quanto più è riluttante verso l'ideologia che sorregge il Sistema, tanto più Saviano sembra affascinato dal mirabile coordinamento degli uomini, dalla precisione svizzera dell'organizzazione che sta sotto ad ogni azione della camorra. Così, ad esempio, il tour dello spaccio, nei suoi gradini più bassi, diventa una bella metonimia dell'intero Sistema: «Le piazze dello spaccio mi hanno sempre affascinato per la perfetta organizzazione che contraddice una lettura di puro degrado. Il meccanismo di spaccio è quello di un orologio. È come se gli individui si muovessero identici agli ingranaggi che mettono in moto il tempo» (p. 75). Paradossalmente, capita che i dichiarati e acerrimi nemici di un uomo, una classe, un sistema, si risolvano nei loro migliori esaltatori. Del Manifesto del partito comunista si disse, ad esempio che fosse uno degli inni più alti scritti alla borghesia. Sarebbe esagerato dire lo stesso di Gomorra nei confronti del sistema camorristico. Ma non c'è dubbio che, da parte di chi per anni ha studiato minuziosamente il fenomeno in tutta la sua complessità e stratificazione, c'è come la volontà di mettere in guardia i futuri, auspicabili, sabotatori del Sistema, di dire loro: voi dovrete essere organizzati ed efficenti come, anzi, più di loro. Fin qui la parte razionale, che sarebbe, credo, piaciuta a Sciascia.

«Annalisa Durante, uccisa a Forcella il 27 marzo 2004 dal fuoco incrociato, a quattordici anni. Quattordici anni. Quattordici anni. Ripeterselo è come passarsi una spugna d'acqua gelata lunga la schiena» (p. 168); «pensare che una ragazzina è morta perché aveva deciso di ascoltare musica assieme alle amiche, sotto un portone in una serata di primavera, fa girare le viscere. Ho la nausea. Devo restare calmo. Devo capire, se possibile» (p. 172). È in parti come queste, che si potrebbero riportare a decine, che emerge invece un baratro tra la scrittura di Sciascia e quella di Saviano. E non perché, come un po' semplicisticamente si dice, la scrittura di Saviano sia retorica mentre quella di Sciascia non lo sia. Ogni scrittura o discorso che mira ad attirare consenso sul proprio contenuto ha una tramatura retorica. Dei tre tipi di retorica canonizzati sin dall'antichità (epidittica, deliberativa, giudiziale), Sciascia predilige però quella giudiziale, volta a districare il vero dal falso, e sin dalle sue origini destinata ad un pubblico molto ristretto (avvocati e giudici); mentre Saviano quella deliberativa, quella votata alla scelta del bene sul male, e indirizzata al più ampio numero dei cittadini, perché siano in grado di prendere le necessarie decisioni politiche; questa parte della retorica prevede un maggior uso di elementi emotivi, fatto tanto più comprensibile in un impasto particolare di scrittura che, fra l'inchiesta, il reportage e la narrazione, ha anche parti diaristiche.
«Io so e ho le prove» (p. 234) urla Saviano sulla tomba di Pasolini a Casarsa, che invece diceva di sapere, ma senza prove e nemmeno indizi, per il semplice fatto di essere un intellettuale. (ma non è forse proprio compito degli intellettuali quello di corroborare le proprie tesi con prove e indizi? Chiedere a Carlo Ginzburg, Luciano Canfora, Tullio De Mauro…). Arrivati a oltre due terzi del libro il lettore è quasi disposto a prestar fede a Saviano se, accanto a quella che è forse un'accusa infondata, almeno non sostenuta dalle carte processuali (l'infame assassinio della figlia del magistrato Lamberti, 29 maggio 1982, che Saviano addebita a Raffaele Cutolo, p. 99), il libro contiene informazioni che suonano profetiche («ora quella sabbia è nelle pareti dei condomini abruzzesi», p. 236) e dichiarazioni di boss che – è il caso di “Sandokan”, nell'aula del tribunale che lo condannerà – ci risultano sinistramente familiari, dandoci una (possibile) chiave di interpretazione del nostro italico presente:

«Si agitava, voleva reagire alla sentenza, ribadire la sua tesi, quella del suo co
llegio difensivo: che lui era un imprenditore vincente, che un complotto di magistrati invidiosi e marxisti aveva considerato la potenza della borghesia dell'agro aversano una forza criminale e non il frutto di capacità imprenditoriali ed economiche» (p. 220).

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