XVI – Ritorno ad Itaca
Capitolo Sedicesimo
Dove Zenone e lo scriba arrivano a Itaca dopo un lungo viaggio
e fanno un lungo pediluvio
All'arrivo della nave alle prossimità di Itaca, Zenone da lontano riconosce il porto, il nuovo porto, grande esempio (per quei tempi) di modernità e progresso; il porto sembra lo stesso che Zenone ricorda da prima ch'infuriasse la guerra, lo stesso ma svuotato delle navi. Salutano allora Zenone e lo scriba l'equipaggio, si tuffano a mare e prendono l'ultima faticata a nuoto fino alla riva.
Una volta atterrati, seduti sulla sabbia senza più fiato, anche quell'unica nave che li ha portati fin lì è lontana, sulla rotta per l'isola dei Feaci; più a nord. Zenone e lo scriba la guardano sparire alla vista, in quel gran silenzio – fatta eccezione per il vento che ulula sottilmente nelle orecchie. E fatta eccezione per la voce di un bambino, o meglio un ragazzino, di dieci o dodici anni: Cosa fate? – dice.
Non lo sapete – dice il ragazzino – non lo sapete che per entrare al porto bisogna pagare un pedaggio? È la legge, lo sapete? dovete ritornare in mare – dice. Zenone e lo scriba, ancora fiacchi per la nuotata, fanno come gli si dice: si alzano da terra e si mettono coi piedi ammollo. Coi piedi ammollo nell'acqua fredda, lì ritti sulle gambe. In piedi. I vestiti fradici, un vento impietoso, tremolanti come le ultime foglie ancora appese ai pioppi, Ecco – dice il ragazzino, tutto angelico coi boccoli biondi e una pelle bianca di caprone addosso – così può andare – dice – ce l'avete da pagare il pedaggio?
Zenone guarda lo scriba, lo scriba guarda Zenone: non ce l'hanno. Non ce l'avete? – gli fa il ragazzo – ah ben, se non ce l'avete, allora… – i piedi di quell'altri due si facevano via via più violastri e prossimi alla necrosi. Tra un po' si fa notte – aggiunge – …non si può stare in giro di notte, al porto – dice – adesso vado a chiamare le guardie, aspettatemi qui – e il piccoletto, coi suoi boccoli biondi e la sua pelle di caprone addosso, se ne va saltellando per un sentiero che porta alla città.
Chi era, quello? – gli fa lo scriba a Zenone – sono tutti così, nell'isola? Tutti dei piccoli merdosi così? – d'altra parte, trovandosi in un paese straniero e del tutto sconosciuto, non osava lo scriba tirarsi fuori dal mare gelato. E Zenone: non meno di lui. Perchè Zenone sa bene che in quell'isola c'è d'aspettarsi di tutto, anche trovarsi mandato a morte da un piccolo merdoso. Un piccolo merdoso con i boccoli biondi. Nientemeno che per essere fuori dall'acqua invece che dentro l'acqua con i piedi. Ucciso a bastonate, com'era l'usanza dell'isola. Pur che una cosa del genere, diec'anni prima, quand'era Odisseo a governare, mai si sarebbe pensata. Ma erano altri tempi – si dice Zenone, proseguendo nella riflessione sui fatti – e nemmeno mi aspettavo che Odisseo distruggese Troia, percui… – e rimangono lì ad aspettare.
Zeno, qui si muore gelati – ma ecco arrivare un vecchio a larghi passi, gobbetto, accompagnato dal piccolo merdoso coi boccoli biondi. L'incurvatura dell schiena e il viso arato dalle rughe, si faticava a riconoscerlo.
Era il vecchio Laerte, padre (ameno così crede) di Odisseo e figlio di Cefalo l'amante (secondo quel che si dice) dell'Aurora.
(continua)