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Scritto da nel Numero 66 - 1 Febbraio 2010, Politica | 0 commenti

Il carcere dei suicidi

Quando si parla di diritti è impossibile non parlare degli istituti di pena. All'interno delle carceri italiane si incrociano i doveri e i diritti degli uomini, siano essi sorveglianti o sorvegliati, agenti di polizia penitenziaria o detenuti.

Il carcere di Sulmona, in Abruzzo, è un cosiddetto super carcere, unico insieme a quello di Torino per la sua costituzione in cui si trovano detenuti particolari. Il carcere di Sulmona apre i cancelli nel 1992 presentandosi come una delle più moderne e attrezzate strutture che il nostro paese possa offrire. Come il resto degli istituti di pena italiani, anche quello di via Lamaccio soffre per il sovraffollamento, attualmente ci sono circa 500 detenuti, di cui 120 con gravi problemi psichici, quando in realtà potrebbe contenere poco più di 300 carcerati.
E' noto come il “carcere dei suicidi” a causa della clamorosa escalation che ha registrato negli ultimi quindici anni, senza nessun precedente in Italia.
Il 19 gennaio 1994 il primo morto, Luigi D'Aloisio, pugliese, 37 anni, si toglie la vita impiccandosi con il lenzuolo legato alla finestra della camera di sicurezza. Cinque anni dopo, nel '99 Cosimo Tramacere, brindisino, di ritorno in carcere dopo tre giorni di permesso premio si getta sotto un treno. Un mese dopo, 12 luglio, s'impicca nella propria cella Antonio Miccoli. Il 19 aprile 2003, si uccide con un colpo di pistola la direttrice del carcere Armidia Miserere. Sei mesi dopo anche Diego Aleci, mafioso sottoposto al 41 bis, si toglie la vita con i lacci delle scarpe; lo stesso metodo è usato anche da Francesco Di Piazza il 28 giugno 2004. Nello stesso anno un'altra morte illustre, il 16 giugno, dodici giorni prima di Di Piazza, si toglie la vita il sindaco di Roccaraso Camillo Valentini, arrestato alcuni giorni prima per concussione. Il sindaco di Roccaraso non usa i lacci delle scarpe ma s'infila un sacchetto di plastica in testa. La macabra serie non finisce qui, perché l'anno seguente il 3 gennaio 2005, con i lacci delle scarpe si uccide Guido Cercola, braccio destro di Pippo Calò, recluso perché coinvolto nella strage del “rapido 904″, quella del 23 dicembre 1984 quando un treno proveniente da Napoli e diretto a Milano saltò in aria nella galleria di San Benedetto Val di Sambro nell'epoca del cosiddetto “terrorismo di stato”. Nello stesso anno, 2005, altri due morti, l'ultimo il 7 gennaio 2010, Amato Tamarro, 28 anni, di Villa Literno, provincia di Caserta, appena tornato da un permesso premio si toglie la vita impiccandosi alla grata della propria cella.
Questa la lunga serie di morti, mentre la lista dei tentati suicidi è ancora più lunga.

Ogni qual volta un detenuto si è tolto la vita, nei giorni a seguire, quasi come un effetto emulazione, si sono verificati gli episodi di tentato suicidio. Il diritto alla vita è sancito e garantito dalla Costituzione, ma sembra non avere nessuna validità nel carcere di Sulmona. Nel 2005 fa visita al super carcere l'ex Ministro di Grazia e Giustizia Roberto Castelli che dichiara alla stampa: “A Sulmona c'è un dato preoccupante perché, in confronto alla media nazionale, c'è un numero di suicidi piuttosto elevato”; segue un'indagine che si aggiunge a quelle della magistratura e dell'autorità penitenziaria che ad oggi ha portato il nulla.

Il fenomeno è complesso da spiegare. L'ex medico del carcere sulmonese, Antonio De Deo, scomparso lo scorso anno all'età di 82 anni, attraverso un testo cercò di analizzare “l'effetto suicidio” condotto attraverso un'analisi del comportamento dei detenuti e giunse alla conclusione che gli ospiti della casa di reclusione, non avendo altri strumenti per affermare la propria personalità, spesso sono costretti ad usare il proprio corpo e il suicidio, in questo caso, rappresenta un modo per farlo.
Il carcere di Sulmona, è composto anche da una casa lavoro, dove i detenuti trascorrono un lungo periodo prima di tornare in libertà. Tuttavia risulta completamente insufficiente a soddisfare il processo di reintegrazione sociale e oggi molti rappresentanti della politica, dei sindacati e del personale che opera soprattutto sul profilo psicologico dei detenuti ne chiedono la chiusura perché totalmente insufficiente a soddisfare il processo di integrazione dei detenuti.
Dei 500 detenuti, circa 300 sono tossicodipendenti, molti sieropositivi, e sono più del doppio rispetto agli agenti di polizia penitenziaria che operano nel carcere, e per i 120 detenuti con particolari problemi psichici vi è a disposizione un solo medico. Numeri impietosi e drammatici.
“Quotidiani autolesionismi, minacce, aggressioni fisiche e verbali stanno parecchio minando la sopportazione di un personale che si è sempre distinto per la qualità del lavoro svolto ma che ora dice basta. Dice basta con le lacrime e con gli occhi scavati da un disagio che ha raggiunto oramai il limite” queste le parole dei sindacati in un comunicato stampa congiunto diramato nei giorni scorsi.
Secondo Franco Corleone, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale presso il Comune di Firenze, “Occorre sempre ricordare che il carcere è il luogo della perdita della libertà, per chi è in attesa di giudizio e per chi si trova nella condizione di espiare una pena. Abbiamo a che fare cioè con un'istituzione totale che quasi naturalmente si caratterizza come luogo di potere e in cui il detenuto è il soggetto più debole. Il carcere rappresenta il deposito finale della Giustizia e sempre più si è cucito addosso l'appellativo di discarica sociale”.

Nei prossimi giorni è attesa una visita del Guardasigilli Angelino Alfano affinché anche la legalità sia un valore da affermare con forza anche nelle carceri.

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